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lunedì 19 novembre 2012

L'estinzione dei dinosauri

di Francesco De Biasi

Uno dei misteri più affascinanti del quale l’uomo si è sempre occupato, e che non è ancora riuscito a risolvere, riguarda la scomparsa di alcuni fra i primi esseri viventi, vissuti circa 65 milioni di anni fa. I dinosauri. La causa riguardante la loro estinzione di massa è ancora da scoprire, anche se buona parte degli studiosi moderni è d’accordo sul formulare un’importante ipotesi, la quale afferma che la catastrofe sia avvenuta a livello planetario e che inoltre coinvolse l’intero ecosistema globale. È ancora da accertare la provenienza di tale catastrofe, bisogna cioè capire se codesto evento abbia origini terrestri oppure esterne, provenienti dallo spazio.
Nel primo caso (origini terrestri) si potrebbe considerare come causa la variazione dell’inclinazione dell’asse terrestre, che avrebbe avuto conseguenze distruttive dal punto di vista ambientale e climatico, oppure l'esagerato incremento dell’attività vulcanica sulla terra che porterebbe alla produzione di gas e fumi e ovviamente dell’effetto serra, che ha poi impedito il normale svolgimento della vita sul nostro pianeta. Ma questi sono eventi che avrebbero dovuto avere di certo molto più tempo per creare un cataclisma del genere, inoltre bisogna considerare l’effetto della catastrofe nei confronti dell’intera specie animale. A questo proposito sembra molto più accreditata la seconda ipotesi (origini esterne, spaziali) la quale afferma che la terra sia stata soggetta a una pioggia di meteoriti che mise fine all’esistenza dei dinosauri. Per capirci meglio, un meteorite è ciò che rimane dopo l’ablazione atmosferica (processo di rimozione di materiale dalla superficie di un corpo attraverso la vaporizzazione e l’erosione) di un meteoroide entrato in collisione con la terra. Praticamente è ciò che del corpo raggiunge il suolo terrestre. La causa della scomparsa dei dinosauri è ancora in fase di studio, anche se gli unici indizi di rilevazione scientifica sono l’improvviso aumento dell’iridio sulla terra e l’evento di Tunguska.
Tunguska è una località che si trova in Siberia ed è famosa proprio per essere stata il luogo dell’impatto di un grande meteorite. Questo avvenimento risale al 30 giugno del 1908. Le conseguenze furono catastrofiche. Basti pensare che furono abbattuti circa 50 milioni di alberi in circa 2100 km quadrati dal punto dell’esplosione. L’esplosione ebbe inoltre effetti diversi a seconda della distanza: a 1000 km fu udito un rumore assordante, a 600 km fu deragliata la ferrovia transiberiana, a 500 km alcuni abitanti videro una nube di fumo alzarsi all'orizzonte e addirittura a circa 60 chilometri un testimone diretto (Semenov ) ci racconta di aver visto il cielo spaccarsi in due parti e subito dopo richiudersi, per poi essere scaraventato a diversi metri di distanza. Attraverso degli studi si è giunti alla conclusione che la forza dell’impatto si aggira attorno ai 10 e i 15 megatoni.
Tale fenomeno può essere spiegato solo dall’esplosione di un asteroide sassoso (l’asteroide è un corpo celeste simile alla terra per composizione ma più piccolo e di solito privo di forma sferica) di circa 30 metri che si muoveva ad una velocità di circa 16 kilometri/secondo. La distruzione del corpo celeste è avvenuta
a circa 10 km di altezza e la resistenza dell’atmosfera quasi sicuramente ha dovuto frantumare l’asteroide e la vaporizzazione è stata causa della gigantesca onda d’urto. Possiamo riscontrare però da una simulazione da parte della NASA che si può escludere l’ipotesi della natura ferrosa e carbonacea dell’asteroide e considerando inoltre studi approfonditi sulla densità si è arrivati alla conclusione che sia molto improbabile che l’evento di Tunguska sia stato provocato da una cometa (corpo celeste relativamente piccolo simile a un asteroide ma composto prevalentemente da ghiaccio).
Gli alberi caduti in seguito all'evento di Tunguska (1908)
Un’ altra simulazione più recente, effettuata a Mosca, conferma l’ipotesi della vaporizzazione dell’asteroide a circa 8 chilometri di distanza dall’impatto e un'altra ancora del 2007 ha calcolato che la forza d’impatto è stata di circa 4 megatoni.
La presenza di Iridio e l’evento di Tunguska ci aiutano a capire quanto la vita di noi esseri viventi dipenda dallo spazio e da ciò che avviene in esso. Ovviamente tutto ciò suscita molta paura e preoccupazione tra la gente. In effetti molti studiosi si sono posti la domanda di quale potrebbe essere la percentuale di rischio di impatto di asteroidi o comete sulla terra. Considerando che negli ultimi secoli le scoperte scientifiche sono state importantissime, possiamo realmente renderci conto della vulnerabilità della terra rispetto ai corpi celesti presenti nello spazio. Dopo l’evento di Tunguska non ci sono state, fortunatamente, altre simili catastrofi. Adesso sappiamo, però, che la nostra parziale tranquillità potrebbe essere bruscamente interrotte da una visita inaspettata di un oggetto cosmico la cui orbita transita nei pressi della terra.
In futuro ci saranno sicuramente degli astronomi concordi nel prevedere un impatto sulla terra ed essi per capire la percentuale di pericolosità dell’evento si rifaranno ad una scala creata da Richard Binzel, chiamata NEO, near-Earth, che va da grado 0 a 5 in ordine crescente di pericolosità. Gli astronomi stimano che gli asteroidi vicini alla terra siano circa 10000 ma tuttavia se ne conoscono solo 350. Il loro diametro è di circa mezzo chilometro e un loro ipotetico impatto con la terra non coinvolgerebbe tutto il genere umano ma circa il 25%.
Un’importante e piacevole notizia ci è giunta recentemente rivela che la percentuale di impatti con oggetti simili a quello dell’evento di Tunguska è di uno ogni 600 anni. L’unica soluzione possibile è quella di sperare di ricevere notizie positive e rassicuranti da parte dei planetologi e degli astronomi.

domenica 9 settembre 2012

Jeu mi ndi vaiu a Festa!


Poesia in vernacolo di Pasqualino Placanica

Minatimi ntall'anchi,
minatimi nta testa,
pigghiativi a me machina,
ma non mi tuccati a Festa!

Si siti latriceddi,
si non pavati i tassi,
si 'mpaticati all’atri,
si bbandunati i cani,

c’è u Quatru da Madonna
non vi nd’ancarricati,
chi poi pi novi sabati
vi spetta mu priati.

A festa dura jorna,
a vita tanti anni,
prima iti a Prucessioni,
e poi faciti danni.

Se quandu cala u Quatru
'nci iti puru appressu
allura stati certi
chi poi tuttu è permessu.

Si vui cuntati mbrogghi
e’ cittadini i Rriggiu
dicendu: “tuttu è a postu
acca nui simu i megghiu!”

allura stati certi
chi si a Vara 'ncoddati
puru sti peccateddi
vi sunnu perdunati.

E jeu chi staiu mi vardu
chi mi mbilenu u sangu
mi viu sfilari genti
chi mancu si virgogna

a spettu u stessu, a Festa,
mi ‘nzonnu chi stavota
u Quatru si ribella
e i manda a ddu paisi.

Ma non succeri nenti,
sunnu tutti cuntenti,
pari chi non è veru
chi nd’hannu a dari cuntu.

E allura mi cunsolu
pensandu chi c’è sempri
speranza ch’i Rriggini
capisciunu c’u Quatru

non faci nenti sulu,
havi bisognu i fatti
voli vidiri a genti
chi cerca mi reagisci

voli vidiri a genti
chi jiasa a testa e dici
chista città è a nostra!
mi si ndi vannu i latri!”

Minatimi ntall'anchi,
minatimi nta testa,
pigghiativi a me machina,
jeu mi ndi vaiu a Festa!

Il pastore reggino


Racconto di Pasqualino Placanica

Era l’estate del 1970, a Reggio Calabria erano appena scoppiati quelli che saranno poi definiti “i moti di Reggio”, dappertutto la popolazione scendeva in strada a manifestare contro l’emarginazione della città da parte del governo centrale; in un solo colpo l’arroganza del potere stava per annullare una delle città più antiche e gloriose della Magna Grecia. Natale era un giovane professore di lettere classiche appassionato di lettere antiche e storia, in particolare della storia della sua città. Passione che aveva ereditato dal nonno da cui aveva preso anche il nome, archeologo di valore mondiale e professore universitario di chiara fama. Fin da piccolo, aveva seguito quando possibile il nonno nelle campagne di scavi in posti lontani e pericolosi, acquisendo conoscenze insolite per un ragazzo della sua età. Adesso, però, si trovava sempre con il nonno ad affrontare un avversario imbattibile: la morte. Il maestro di vita che lo aveva cresciuto e forgiato era giunto al termine della sua lunga vita terrena, ed aveva voluto espressamente al suo capezzale il caro nipote. Nel silenzio della stanza semibuia, il vecchio scienziato si rivolse al nipote:
  • So di essere ormai giunto al termine della mia strada; non ho niente da rimpiangere, ho avuto una vita piena di soddisfazioni e di avventure. Ho messo a disposizione della nostra gente quello che è scaturito dal mio lavoro. C’è una cosa, però che non ho mai raccontato a nessuno e che adesso, proprio in questi momenti estremi, mi rendo conto di non avere il diritto di portare con me senza che qualcuno ne prenda conoscenza. Tantissimi anni fa non ho dato la giusta importanza a quanto mi è accaduto.-
Il vecchio professore prese fiato, ed iniziò a raccontare, con voce fioca ma calma e decisa.
  • Nel 1908 avevo trent’anni, l’età che hai tu adesso, anch’io, come te adesso, ero già laureato da tempo ma ancora non avevo ottenuto il credito che mi avrebbe poi portato ad essere considerato uno dei più grandi esperti di storia della Magna Grecia. Avevo partecipato a varie campagne di scavi, ma sempre su siti già conosciuti ed esplorati. Nel tempo libero, in compagnia del mio cane spinone me ne andavo in giro per le campagne reggine in cerca di resti della nostra antica civiltà, senza certamente aspettarmi di trovare chissà cosa; solo un colpo di fortuna avrebbe potuto farmi fare la scoperta che sognavo da sempre. Un freddo giorno di dicembre, in prossimità delle feste natalizie, mi trovavo sulle colline dietro Reggio, all’inizio del torrente Calopinace; il mio cane mi precedeva come al solito, e si intrufolava nella vegetazione con abilità come era sua natura. Purtroppo, o forse per fortuna, ad un certo punto il cane sprofondò in una buca che si era aperta improvvisamente nel terreno. Lo sentivo mugolare e sporgendomi nella buca riuscii anche a vederlo. E vidi anche che in realtà mi trovavo sopra un pavimento di pietra coperto dalla terra e dalla vegetazione. Piano piano riuscii ad allargare l’apertura, asportando altre pietre intorno al buco. Il cane uscì fuori da solo, illeso, e solo allora realizzai di essere sopra una specie di camera sotterranea di fattura antica. Stava facendo buio, e comunque ero sprovvisto di qualsiasi attrezzo utile, perciò ricoprii tutto con delle frasche e rientrai nel paese vicino, dove facevo base presso una famiglia di contadini amici di mio padre. Non feci parola con nessuno di quanto avevo scoperto. La mattina dopo, fornito di corda, lume e attrezzi da scavo, ritornai sul posto e dopo qualche ora di lavoro riuscii ad aprire un varco tale da permettermi di entrare nella stanza sotterranea. Era una stanza vera e propria, spoglia di tutto. Uno dei muri, però, era quasi completamente costituito da una lastra di pietra liscia, ricoperta di terra e ragnatele. Ripulita, la lastra si rivelò essere una stele, su cui era scolpita una lunga scritta in greco antico; un racconto, ambientato alle origini di Reggio, l’antica Rheghion. Credo che la stele fosse originariamente posizionata da qualche altra parte e poi, per qualche motivo sconosciuto, sia stata spostata ed inserita nel muro del manufatto che la ospitava. Impiegai diversi giorni a decifrare cosa ci fosse scritto, ostacolato dalla poca luce e dalla segretezza che mi ero imposto per cautela e, adesso lo ammetto, per egoismo. Volevo prendermi tutto il merito, mi sentivo all’altezza di farcela da solo. E in effetti ce l’avevo fatta, a decifrare la stele. Era scritta in caratteri calcidesi, credo risalisse all’epoca della colonizzazione greca, circa all’ottavo secolo avanti Cristo.-
  • Ma non capisco, nonno; non ho mai sentito parlare di questa stele...- disse il giovane Natale.
  • Infatti, nessuno ne ha mai saputo niente. L’ultimo giorno, quello in cui terminai di decifrarla, mi riproposi di annunciare al mondo la scoperta, che sapevo essere clamorosa, ormai. La mattina successiva, Reggio e tutto quanto la circonda vennero distrutte dal terremoto più catastrofico del nostro tempo; era il 28 dicembre del 1908. Per mesi e mesi io e tutti i reggini avemmo ben altro da pensare. Quando la situazione lo permise, mi recai sul posto della scoperta ma lo trovai sconvolto, irriconoscibile. Enormi massi di roccia pura si erano spostati come niente fosse, dove c’era la collina adesso era pianura, tutti i miei punti di riferimento non esistevano più. Era impossibile individuare il sito, ammesso che la stanza fosse ancora in piedi, cosa che io credetti improbabile. Tornai molte volte sul posto, ma non riuscii neppure ad orientarmi. Non raccontai niente a nessuno. Cosa avrei potuto dire? Chi mi avrebbe creduto, senza alcuna prova? E così per più di mezzo secolo mi sono portato dietro il rimpianto di non aver potuto donare alla scienza un documento eccezionale. Ma da poco tempo, invece, ho capito che la vera ricchezza della mia scoperta non era la stele, ma quello che vi era scritto. Ho capito che è mio dovere far conoscere ai reggini quanto tramandato dai Padri fondatori, e che forse la mia scoperta non è stato un caso. La nostra città vive un periodo buio, mai come adesso è necessario che quanto ho letto in quei giorni sia messo a conoscenza del popolo reggino.-
  • Tu ricordi quello che vi era scritto?- chiese Natale al nonno.
  • Ricordo perfettamente tutto, come se lo stessi leggendo adesso -
Ed il vecchio scienziato iniziò a ripetere la storia che tante volte aveva rammentato con rimpianto:

<<Sulla spiaggia fatta di ciottoli alla foce del sacro fiume Apsias, il giovane Agatos guardava le sue pecore pascolare tranquillamente. Il sole stava per sparire dietro le montagne della terra dei tre promontori, la Trinacria. In quel posto, qualche anno prima era sbarcato con suo padre insieme a tanti altri. Lui era un bambino, a malapena ricordava i luoghi dove viveva prima. I suoi ricordi veri iniziavano proprio con quello sbarco, quando aveva sentito dire a suo padre che quello era il luogo destinato dagli Dei a diventare la loro nuova patria. E così era stato, da anni ormai Agatos ed i suoi compagni di viaggio vivevano a Rheghion sotto il saggio governo del padre. Appoggiato con la schiena al muro di pietre, con la sua mente fervida pensava alla nuova terra che abitava da poco, a ciò che era stato ed a ciò che sarà, navigando con il pensiero verso tempi futuri tanto lontani che forse mai sarebbero arrivati. Agatos immaginava una città florida, come non potrebbe essere altrimenti in un posto come questo; acqua, frutta, selvaggina, mare, sole. E sulle montagne alle spalle legname di qualità per costruire le navi. La terra degli Dei doveva essere molto simile. Immaginava una città sopra le altre, egemone per forza e per diritto. Immaginava un popolo fiero e saggio, emanatore di civiltà e cultura nel mondo conosciuto, ospitale e pronto ad accogliere chiunque venga in pace, viaggiatore o profugo. Immaginava.... L’abbaiare del cane lo distolse dai pensieri: una donna era seduta sul muro, a pochi metri da lui. Agatos non l’aveva mai vista prima, era bellissima, vestita con una tunica bianca cinta da un laccio dorato. Con i capelli dorati raccolti sul capo ornato da un pettine bianco e dei lunghi ricci lasciati cadere lungo le guance rosee, le braccia scoperte ed i piedi scalzi. Lo sguardo rivolto verso il mare, sembrava non accorgersi di Agatos. Mentre il cane continuava ad abbaiare rivolto verso la donna, Agatos si alzò e le si avvicinò. Improvvisamente la donna si girò verso il cane, e lo guardò con quegli occhi che, adesso si vedeva, erano verdi e profondi; il cane smise di abbaiare, e mugolando si accucciò a terra, intimorito.
  • I tuoi pensieri sono quelli di un uomo che ama questa terra profondamente, Agatos -
Le parole non uscirono dalla bocca della donna ma Agatos le udì distintamente.
  • Mi conosci? E come fai a sapere cosa penso? Chi sei? -
  • Troppe domande, per un uomo pieno di certezze come sei tu. Se tu vuoi, sono l’essenza stessa di questa terra, oggi mi vedi così domani forse avrò un’altra immagine; sarò sempre come mi immaginano gli uomini onesti, e mai come mi vogliono i malvagi. Ma sarò sempre io, e questo conta. Tu sei degno di vedermi e di parlare con me, perché hai il cuore puro; ed io ho bisogno di parlare con te, affinché il tuo popolo, che adesso è il mio popolo, sappia ciò che è stato e ciò che è. Quello che sarà non posso dirlo.-
Agatos era affascinato dalla donna, che adesso sorrideva, mentre i suoi occhi erano penetranti come lame, e lui si accorse che la voce che sentiva era dentro la sua mente.
  • Io vi darò quanto di meglio possa avere un uomo in questo mondo: vi darò acqua, terra fertile, flora e fauna, sole e pioggia. Ma voi dovrete farne l’uso giusto. Da questa terra potrete trarre vita e potere, ma ugualmente, se non userete saggezza, trarrete morte e disgrazia. Per questo io non posso dirti cosa sarà, sarete voi, tu ed il tuo popolo e quelli che vi seguiranno a decidere del vostro futuro. Nel tempo mi invocherete, ogni volta che avrete difficoltà chiederete il mio aiuto, ed io ci sarò sempre. Mi chiamerete con mille nomi, mi darete mille aspetti. Gioirò e piangerò con voi, ma non potrò aiutarvi se voi stessi non vi aiuterete. Vai, Agatos, e porta questo messaggio al tuo popolo, che faccia tesoro delle mie parole adesso e nei tempi futuri. -
Così parlò la donna. Il cane riprese ad abbaiare e Agatos si girò di colpo, risvegliatosi dal torpore. Era ormai buio, e intorno a lui non c’era nessuno. >>
Terminato il racconto, il professore disse al nipote:
- Apri quel cassetto - indicò il comodino a fianco del letto - e prendi l’agenda di pelle nera; nelle prime pagine troverai il disegno della stele. L’ho riportata più fedelmente possibile, era buio, la sotto. - E Natale, presa l’agenda, sfogliando le pagine ingiallite dal tempo rilesse in greco antico le stesse parole che il nonno gli aveva recitato poco prima, affascinato dai caratteri antichi che da anni insegnava ai giovani reggini, ma che non aveva mai associato a qualcosa di così reale.
- Questo è quanto era riportato sulla stele, questo è quello che i nostri antenati, cittadini di Rheghion hanno portato avanti, nel bene e nel male, per millenni. Adesso tu sei il custode di un principio essenziale per la stessa esistenza della nostra città, fanne uso, diffondilo tra i reggini, affinché le glorie di Rheghion non rimangano solo antica memoria.-
Con queste parole il vecchio spirò sorridendo; ma la morte del nonno stranamente non intristì il giovane. L’emozione lo assalì, la sua mente immaginò una città viva, fiera, emanatrice di civiltà e cultura nel mondo, ospitale e pronta ad accogliere chiunque venga in pace, viaggiatore o profugo. Immaginò......

P.P.

domenica 5 febbraio 2012

Cogito ergo sum sed tempum nullam essendi est (Penso dunque sono, eppure non vi è tempo di essere)

di Stefania Guglielmo

Il pensiero sembra essersi posto, nel corso del tempo, come il carattere distintivo del genere umano; la facoltà di stupirsi, domandarsi,ricercare, ipotizzare e comprendere sembra infatti un’esclusiva dell’uomo. Il cogere cartesiano è il tassello-base nella struttura dell’essenza dell’individuo: è il pensiero che glipermette di essere ciò che è (uomo) è null'altro. In quest’ottica in cui l’uomo pensa per cui egli è, sillogisticamente, se non pensasse non sarebbe più uomo, ma un qualsiasi altro essere; è ben noto, tuttavia, che all’uomo poco diletta l’esser posto sullo stesso piano degli altri esseri, tant’è che egli innalza la propria esperienza, decantando il possesso di questa sua particolare capacità. Coerentemente con le sue pretese l’uomo dovrebbe dunque dedicare gran parte della propria esperienza esistenziale a questa attività così unica e nobile; ad oggi, però, nella società,creata proprio dall’essere pensante, non vi è tempo di cogere,non vi è tempo di pensare, dunque, non vi è tempo di essere. L’uomo è ora considerato pienamente tale se produce, dunque deve produrre atutti i costi: la sua istruzione, la sua formazione, il suo tempo devono essere finalizzati alla produzione, in quanto un uomo che nonproduce poco si incastra nella odierna società- puzzle, che per esistere deve far sì che tutti i suoi pezzi siano della stessa misura, nella giusta posizione ed immobili, altrimenti rischia di infrangersi irrimediabilmente. In questa prospettiva l’uomo deve impegnarsi per produrre nel massimo tempo di cui dispone e deve farlo tramite il lavoro che di rado è commisurato alle capacità, alle propensioni e alle attitudini dei singoli individui e, di converso, è sempre più spesso assegnato usando come unico parametro il profitto.Detto ciò, si provi ad applicare la definizione cartesiana dell’essenza umana alla situazione sociale che si sta vivendo: la maggior parte del tempo dell’uomo viene impiegata nel lavoro; esso tuttavia non è concepito come un’azione che valorizzal’individualità dell’esperienza di ogni singolo, bensì comel’attività alienante per eccellenza, in quanto costruita, non intorno alle peculiarità dell’individuo, ma intorno all’interesse di una massa informe composta da mille volti, in cui specchiandosi nemmeno uno di essi si riconoscerebbe. In questo quadro l’individuo quando torna ad essere se stesso? Quando vive il proprio tempo,godendo a pieno della propria esperienza? Quando ritorna a soffermarsi ed essere uomo? L’alta esperienza dell’individuo diviene oggi una corsa sfrenata, in cui è licenzioso l’affanno e in cui ci si trova a desiderare di occupare il proprio tempo tramite qualsiasi mezzo pur di non pensare, poiché l’azione più cara all’uomo è divenuta un atto doloroso che conduce alla consapevolezza di non poter essere ciò che si è. Tale mutamento non può essere considerato come una trasformazione evolutiva, in quanto essa comporterebbe l’assunzione di una nuova forma che mantiene alla sua base un’immutata componente sostanziale, il pensiero appunto. In questo caso, invece, si sta tradendo la propria essenza per diventare altro rispetto a ciò che si è, e, si sa, per diventare altro è bene che prima ci si annulli completamente. Ciò che forse si è sottovalutato è che ciò compone un ente permane al permanere della sua esistenza dunque per quanto si ignori o sirimandi arriverà il tempo di cogere, di fare i conti con se stessi, ed il pensiero, che è la più grande arma che l’uomo possiede, se ignorato, al momento in cui inevitabilmente si presenta,potrebbe apparire insostenibile.

martedì 31 gennaio 2012

"Scusate, non ce la faccio più"


"Scusate, non ce la faccio più" è questa l'ultima frase che scrive un imprenditore veneto prima di puntarsi una pistola alla tempia e premere il grilletto. Aveva, invece, solamente quarantatré anni la titolare di un attività di ristorazione, la quale, dopo aver accompagnato la figlia più piccola a scuola, riservandole un ultimo abbraccio, ha preferito esalare l’ultimo respiro gettandosi sotto un treno. Questi sono solo due casi di una silenziosa strage che si sta consumando nel nostro Paese: è sempre crescente, infatti, (circa 25 solo lo scorso anno) il numero degli imprenditori che, strozzati dai debiti, si tolgono la vita. Nel 2011 si sono registrati 8.566 fallimenti, un aumento del 35,5% rispetto al 2009 e, nella maggior parte dei casi, le aziende in questione sono state costrette a chiudere a causa di debiti da usura. Tale fenomeno è, ad oggi, sicuramente alimentato dalla crisi economica che aleggia nell’aere ma, a fare la sua parte, vi è anche e soprattutto un ottuso sistema bancario prepotentemente mantenuto in vigore. Infatti, se in questo periodo ci si reca in un istituto di credito, in veste di cittadini privati o in veste di titolari d'imprese, con l’intento di chiedere un piccolo finanziamento, un prestito temporaneo o un fido, si ha la certezza quasi matematica di ricevere sempre la stessa risposta: "Ci dispiace ma non è possibile". A dimostrazione dell’esistenza di questa “regola” si pongono, di fatto, alcune eccezioni: quei rari casi in cui la concessione avviene a patto che il debito contratto si ripaghi a tassi d'interesse esorbitanti.
Le banche, dunque, non erogano più credito (nonostante abbiano ricevuto dalla BCE un prestito da 50 miliardi di Euro al tasso dell'1% per tre anni finalizzato proprio a rilanciare l'economia tramite i prestiti alle Imprese) e preferiscono conservare il denaro in modo da poterlo investire al momento giusto in titoli di Stato (che rendono il 6%) o per poterlo usare come salvagente nel momento in cui si ritrovano ridotte in braghe di tela.
Dunque un imprenditore, un piccolo pedone che si muove costretto in questa drammatica scacchiera, ha la facoltà di scegliere fra due allettanti opzioni: lasciare che a "strozzarlo" sia lo Stato (tramite Equitalia) o, meglio ancora, il racket (che dispone di tutta la liquidità possibile per soddisfare la domanda). Spesso si sceglie la seconda strada, che apparentemente dà più tempo o quanto meno non effettua l’immediato pignoramento dell’abitazione. Se ci si impegna ad osservare da questa dolorosa prospettiva, è forse un po’ più facile comprendere quelle persone che, vedendo le proprie aziende espropriate o fallite e dovendo licenziare operai padri di famiglia, sentono profondamente lesa la propria dignità e trovano nella morte l'unica soluzione.
Per l'ennesima volta, siamo riusciti a creare un sistema anomalo senza precedenti nel resto del mondo: si fa di tutto per salvare le banche (principale causa della crisi) consegnando nelle mani della criminalità organizzata le imprese (che dovrebbero esserne la soluzione). Non si riesce proprio a capire che la bancocrazia non funziona eppure, se invece che alle banche (mandanti morali di queste morti) la BCE avesse concesso il prestito all'1% di interesse allo Stato Italiano, molte attività si sarebbero rimesse in moto e, forse, qualche bambino godrebbe ancora dell’affetto dei propri genitori.

Francesco Denaro

martedì 17 gennaio 2012

IN SERIE B


E fu così che l’Italia venne declassata! In un uggioso sabato mattina, la popolazione italiana si svegliò e si ritrovò in serie B;tuttavia la retrocessione, stavolta, non era riferita a qualche disciplina sportiva ma alla nostra cara economia.
“L’autorevole” agenzia Standard & Poor’s, ci ha condannati al purgatorio non ritenendoci in grado di risanare il nostro debito.
In questo contesto, il cambio di governo, le maldigeste manovre di austerità e la macelleria sociale, impostaci sotto lo spauracchio del default, sono servite a poco o a nulla: siamo ancora ritenuti poco credibili.
In realtà siamo davvero così incapaci a risollevare le nostre finanze?
Basandosi su un’analisi dell’operato dei politici che ci hanno governati negli ultimi vent’anni, che si sono occupati di tutto (partendo dagli interessi personali, passando per p3, p4, trans, sino ad arrivare alle nipoti di Mubarak) tranne che dei propri cittadini, verrebbe la tentazione di avallare le teorie della "famosa" agenzia di rating, se non fosse per un piccolissimo, quasi insignificante, particolare. L’economia americana, dopo la crisi del 2008, non si è più ripresa anzi ha continuato a scivolare verso il baratro e, secondo qualche ben informato, il fondo sarebbe molto più vicino di quanto si voglia far credere. Negli anni scorsi ad ogni accenno di inclinatura delle finanze statunitensi, logicamente seguiva un intervento bellico che vedeva lo Stato in questione protagonista e provvedeva così a rimettere in moto la sua industria più produttiva: quella delle armi. Oggi, con un presidente che del motto “basta guerre, riportiamo a casa i nostri ragazzi” ha fatto la colonna portante della propria campagna elettorale, è più difficile intraprendere azioni militari che non siano ben giustificate. È così che, da molto tempo, assistiamo a continue schermaglie con l’Iran e la sensazione che si ha è quella di osservare qualcosa di già visto: tutto ciò ricorda molto quello che avvenne prima dei due conflitti del Golfo, manca solo la balla da raccontare al mondo per giustificare un eventuale intervento, manca, insomma, una pseudo infermiera (poi rivelabile nipote dell’ambasciatore saudita negli Stati Uniti) che racconti di aver visto iracheni uccidere neonati dentro le incubatrici di un ospedale del Kuwait o un segretario di Stato che racconti all’ONU le potenzialità devastanti delle armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein, ad oggi mai ritrovate.
Per inventare storie credibili, però, ci vuole tempo, l’unica cosa che gli Stati Uniti non hanno: il sistema finanziario da essi creato gli si sta ritorcendo contro, riducendoli all’osso. Vediamo quindi gli avvoltoi (speculatori finanziari) aleggiare su un moribondo (gli USA) aspettandone il decesso e magari planando ogni tanto su di esso, beccandolo un po’ per velocizzarne il trapasso.
A questo punto servirebbe un’idea utile per produrre il tempo necessario allo Stato morente per fabbricare una pistola fumante. Perché, dunque, non far credere agli avvoltoi che esista un altro moribondo (l’Europa), più grasso e più appetibile, poco più avanti? Visto che gli unici organi predisposti a constatarne il grado di salute (le agenzie di rating) sono sotto il controllo e di proprietà degli Usa, tale non era un’impresa poi così ardua ed ecco il caso Grecia. Inizialmente essa viene aiutata da una banca americana a falsificare i bilanci per entrare nell’Unione Europea, poi, quando ci si accorge che la nazione è senza un soldo, cominciano i continui tagli di rating che la costringono a politiche di austerità sempre più aggressive finalizzate al pagamento del proprio debito: ecco creato il virus che ha contagiato mezza Europa, è lei il nuovo moribondo da dare in pasto agli avvoltoi.
Ad oggi lascia sgomenti la reazione dei politici europei che, invece di far pressione affinché vengano chiuse queste agenzie, continuano a fare dichiarazioni pubbliche per compiacerle. Come si fa a dare ancora credito a delle agenzie di rating che fino al giorno prima del fallimento della Parmalat e della Lehman Brother assegnavano loro la tripla A, che paragonavano prodotti devirati con all’interno mutui sub prime ai titoli di Stato, definendoli egualmente a basso rischio, che teoricamente sono agenzie private ma praticamente sono foraggiate dalle banche d’investimento americane e che, se chiamate a giudizio sul proprio operato, se la cavano sempre definendo la loro “solo un’opinione”?
Senza rendercene conto abbiamo affidato il futuro nostro, dei nostri figli, delle nostre aziende e dei nostri risparmi nelle mani di poco chiari sistemi finanziari che hanno come unico obbiettivo quello di fare profitti a tutti i costi. Finché non faremo capire a chi ci governa, sia a livello nazionale che europeo, che il sistema economico attuale, essendo fallito, va cambiato e che è necessario che queste agenzie di rating chiudano o diventino meno influenti sul mondo economico, non saremo più artefici del nostro destino.
Il contenuto di questo articolo è frutto di personali congetture ma, se è vero come è vero, che più indizi fanno una prova e che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, forse…

Francesco Denaro