Racconto di Pasqualino Placanica
Era
l’estate del 1970, a Reggio Calabria erano appena scoppiati quelli
che saranno poi definiti “i moti di Reggio”, dappertutto la
popolazione scendeva in strada a manifestare contro l’emarginazione
della città da parte del governo centrale; in un solo colpo
l’arroganza del potere stava per annullare una delle città più
antiche e gloriose della Magna Grecia. Natale era un giovane
professore di lettere classiche appassionato di lettere antiche e
storia, in particolare della storia della sua città. Passione che
aveva ereditato dal nonno da cui aveva preso anche il nome,
archeologo di valore mondiale e professore universitario di chiara
fama. Fin da piccolo, aveva seguito quando possibile il nonno nelle
campagne di scavi in posti lontani e pericolosi, acquisendo
conoscenze insolite per un ragazzo della sua età. Adesso, però, si
trovava sempre con il nonno ad affrontare un avversario imbattibile:
la morte. Il maestro di vita che lo aveva cresciuto e forgiato era
giunto al termine della sua lunga vita terrena, ed aveva voluto
espressamente al suo capezzale il caro nipote. Nel silenzio della
stanza semibuia, il vecchio scienziato si rivolse al nipote:
So
di essere ormai giunto al termine della mia strada; non ho niente da
rimpiangere, ho avuto una vita piena di soddisfazioni e di
avventure. Ho messo a disposizione della nostra gente quello che è
scaturito dal mio lavoro. C’è una cosa, però che non ho mai
raccontato a nessuno e che adesso, proprio in questi momenti
estremi, mi rendo conto di non avere il diritto di portare con me
senza che qualcuno ne prenda conoscenza. Tantissimi anni fa non ho
dato la giusta importanza a quanto mi è accaduto.-
Il
vecchio professore prese fiato, ed iniziò a raccontare, con voce
fioca ma calma e decisa.
Nel
1908 avevo trent’anni, l’età che hai tu adesso, anch’io, come
te adesso, ero già laureato da tempo ma ancora non avevo ottenuto
il credito che mi avrebbe poi portato ad essere considerato uno dei
più grandi esperti di storia della Magna Grecia. Avevo partecipato
a varie campagne di scavi, ma sempre su siti già conosciuti ed
esplorati. Nel tempo libero, in compagnia del mio cane spinone me ne
andavo in giro per le campagne reggine in cerca di resti della
nostra antica civiltà, senza certamente aspettarmi di trovare
chissà cosa; solo un colpo di fortuna avrebbe potuto farmi fare la
scoperta che sognavo da sempre. Un freddo giorno di dicembre, in
prossimità delle feste natalizie, mi trovavo sulle colline dietro
Reggio, all’inizio del torrente Calopinace; il mio cane mi
precedeva come al solito, e si intrufolava nella vegetazione con
abilità come era sua natura. Purtroppo, o forse per fortuna, ad un
certo punto il cane sprofondò in una buca che si era aperta
improvvisamente nel terreno. Lo sentivo mugolare e sporgendomi nella
buca riuscii anche a vederlo. E vidi anche che in realtà mi trovavo
sopra un pavimento di pietra coperto dalla terra e dalla
vegetazione. Piano piano riuscii ad allargare l’apertura,
asportando altre pietre intorno al buco. Il cane uscì fuori da
solo, illeso, e solo allora realizzai di essere sopra una specie di
camera sotterranea di fattura antica. Stava facendo buio, e comunque
ero sprovvisto di qualsiasi attrezzo utile, perciò ricoprii tutto
con delle frasche e rientrai nel paese vicino, dove facevo base
presso una famiglia di contadini amici di mio padre. Non feci parola
con nessuno di quanto avevo scoperto. La mattina dopo, fornito di
corda, lume e attrezzi da scavo, ritornai sul posto e dopo qualche
ora di lavoro riuscii ad aprire un varco tale da permettermi di
entrare nella stanza sotterranea. Era una stanza vera e propria,
spoglia di tutto. Uno dei muri, però, era quasi completamente
costituito da una lastra di pietra liscia, ricoperta di terra e
ragnatele. Ripulita, la lastra si rivelò essere una stele, su cui
era scolpita una lunga scritta in greco antico; un racconto,
ambientato alle origini di Reggio, l’antica Rheghion. Credo che la
stele fosse originariamente posizionata da qualche altra parte e
poi, per qualche motivo sconosciuto, sia stata spostata ed inserita
nel muro del manufatto che la ospitava. Impiegai diversi giorni a
decifrare cosa ci fosse scritto, ostacolato dalla poca luce e dalla
segretezza che mi ero imposto per cautela e, adesso lo ammetto, per
egoismo. Volevo prendermi tutto il merito, mi sentivo all’altezza
di farcela da solo. E in effetti ce l’avevo fatta, a decifrare la
stele. Era scritta in caratteri calcidesi, credo risalisse all’epoca
della colonizzazione greca, circa all’ottavo secolo avanti
Cristo.-
Ma
non capisco, nonno; non ho mai sentito parlare di questa stele...-
disse il giovane Natale.
Infatti,
nessuno ne ha mai saputo niente. L’ultimo giorno, quello in cui
terminai di decifrarla, mi riproposi di annunciare al mondo la
scoperta, che sapevo essere clamorosa, ormai. La mattina successiva,
Reggio e tutto quanto la circonda vennero distrutte dal terremoto
più catastrofico del nostro tempo; era il 28 dicembre del 1908. Per
mesi e mesi io e tutti i reggini avemmo ben altro da pensare. Quando
la situazione lo permise, mi recai sul posto della scoperta ma lo
trovai sconvolto, irriconoscibile. Enormi massi di roccia pura si
erano spostati come niente fosse, dove c’era la collina adesso era
pianura, tutti i miei punti di riferimento non esistevano più. Era
impossibile individuare il sito, ammesso che la stanza fosse ancora
in piedi, cosa che io credetti improbabile. Tornai molte volte sul
posto, ma non riuscii neppure ad orientarmi. Non raccontai niente a
nessuno. Cosa avrei potuto dire? Chi mi avrebbe creduto, senza
alcuna prova? E così per più di mezzo secolo mi sono portato
dietro il rimpianto di non aver potuto donare alla scienza un
documento eccezionale. Ma da poco tempo, invece, ho capito che la
vera ricchezza della mia scoperta non era la stele, ma quello che vi
era scritto. Ho capito che è mio dovere far conoscere ai reggini
quanto tramandato dai Padri fondatori, e che forse la mia scoperta
non è stato un caso. La nostra città vive un periodo buio, mai
come adesso è necessario che quanto ho letto in quei giorni sia
messo a conoscenza del popolo reggino.-
Tu
ricordi quello che vi era scritto?- chiese Natale al nonno.
Ricordo
perfettamente tutto, come se lo stessi leggendo adesso -
Ed
il vecchio scienziato iniziò a ripetere la storia che tante volte
aveva rammentato con rimpianto:
<<Sulla
spiaggia fatta di ciottoli alla foce del sacro fiume Apsias, il
giovane Agatos guardava le sue pecore pascolare tranquillamente. Il
sole stava per sparire dietro le montagne della terra dei tre
promontori, la Trinacria. In quel posto, qualche anno prima era
sbarcato con suo padre insieme a tanti altri. Lui era un bambino, a
malapena ricordava i luoghi dove viveva prima. I suoi ricordi veri
iniziavano proprio con quello sbarco, quando aveva sentito dire a suo
padre che quello era il luogo destinato dagli Dei a diventare la loro
nuova patria. E così era stato, da anni ormai Agatos ed i suoi
compagni di viaggio vivevano a Rheghion sotto il saggio governo del
padre. Appoggiato con la schiena al muro di pietre, con la sua mente
fervida pensava alla nuova terra che abitava da poco, a ciò che era
stato ed a ciò che sarà, navigando con il pensiero verso tempi
futuri tanto lontani che forse mai sarebbero arrivati. Agatos
immaginava una città florida, come non potrebbe essere altrimenti in
un posto come questo; acqua, frutta, selvaggina, mare, sole. E sulle
montagne alle spalle legname di qualità per costruire le navi. La
terra degli Dei doveva essere molto simile. Immaginava una città
sopra le altre, egemone per forza e per diritto. Immaginava un popolo
fiero e saggio, emanatore di civiltà e cultura nel mondo conosciuto,
ospitale e pronto ad accogliere chiunque venga in pace, viaggiatore o
profugo. Immaginava.... L’abbaiare del cane lo distolse dai
pensieri: una donna era seduta sul muro, a pochi metri da lui. Agatos
non l’aveva mai vista prima, era bellissima, vestita con una tunica
bianca cinta da un laccio dorato. Con i capelli dorati raccolti sul
capo ornato da un pettine bianco e dei lunghi ricci lasciati cadere
lungo le guance rosee, le braccia scoperte ed i piedi scalzi. Lo
sguardo rivolto verso il mare, sembrava non accorgersi di Agatos.
Mentre il cane continuava ad abbaiare rivolto verso la donna, Agatos
si alzò e le si avvicinò. Improvvisamente la donna si girò verso
il cane, e lo guardò con quegli occhi che, adesso si vedeva, erano
verdi e profondi; il cane smise di abbaiare, e mugolando si accucciò
a terra, intimorito.
Le
parole non uscirono dalla bocca della donna ma Agatos le udì
distintamente.
Mi
conosci? E come fai a sapere cosa penso? Chi sei? -
Troppe
domande, per un uomo pieno di certezze come sei tu. Se tu vuoi, sono
l’essenza stessa di questa terra, oggi mi vedi così domani forse
avrò un’altra immagine; sarò sempre come mi immaginano gli
uomini onesti, e mai come mi vogliono i malvagi. Ma sarò sempre io,
e questo conta. Tu sei degno di vedermi e di parlare con me, perché
hai il cuore puro; ed io ho bisogno di parlare con te, affinché il
tuo popolo, che adesso è il mio popolo, sappia ciò che è stato e
ciò che è. Quello che sarà non posso dirlo.-
Agatos
era affascinato dalla donna, che adesso sorrideva, mentre i suoi
occhi erano penetranti come lame, e lui si accorse che la voce che
sentiva era dentro la sua mente.
Io
vi darò quanto di meglio possa avere un uomo in questo mondo: vi
darò acqua, terra fertile, flora e fauna, sole e pioggia. Ma voi
dovrete farne l’uso giusto. Da questa terra potrete trarre vita e
potere, ma ugualmente, se non userete saggezza, trarrete morte e
disgrazia. Per questo io non posso dirti cosa sarà, sarete voi, tu
ed il tuo popolo e quelli che vi seguiranno a decidere del vostro
futuro. Nel tempo mi invocherete, ogni volta che avrete difficoltà
chiederete il mio aiuto, ed io ci sarò sempre. Mi chiamerete con
mille nomi, mi darete mille aspetti. Gioirò e piangerò con voi, ma
non potrò aiutarvi se voi stessi non vi aiuterete. Vai, Agatos, e
porta questo messaggio al tuo popolo, che faccia tesoro delle mie
parole adesso e nei tempi futuri. -
Così
parlò la donna. Il cane riprese ad abbaiare e Agatos si girò di
colpo, risvegliatosi dal torpore. Era ormai buio, e intorno a lui non
c’era nessuno.
>>
Terminato
il racconto, il professore disse al nipote:
-
Apri quel cassetto - indicò il comodino a fianco del letto - e
prendi l’agenda di pelle nera; nelle prime pagine troverai il
disegno della stele. L’ho riportata più fedelmente possibile, era
buio, la sotto. - E Natale, presa l’agenda, sfogliando le pagine
ingiallite dal tempo rilesse in greco antico le stesse parole che il
nonno gli aveva recitato poco prima, affascinato dai caratteri
antichi che da anni insegnava ai giovani reggini, ma che non aveva
mai associato a qualcosa di così reale.
-
Questo è quanto era riportato sulla stele, questo è quello che i
nostri antenati, cittadini di Rheghion hanno portato avanti, nel bene
e nel male, per millenni. Adesso tu sei il custode di un principio
essenziale per la stessa esistenza della nostra città, fanne uso,
diffondilo tra i reggini, affinché le glorie di Rheghion non
rimangano solo antica memoria.-
Con
queste parole il vecchio spirò sorridendo; ma la morte del nonno
stranamente non intristì il giovane. L’emozione lo assalì, la sua
mente immaginò una città viva, fiera, emanatrice di civiltà e
cultura nel mondo, ospitale e pronta ad accogliere chiunque venga in
pace, viaggiatore o profugo. Immaginò......
P.P.