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mercoledì 30 novembre 2011

Tchaikovsky, non un compositore ma un poeta


di Vittorio Calogero


Pyotr Ilyich Tchaikovsky è stato un compositore dell'Ottocento Europeo, noto per Lo schiaccianoci, Il lago dei cigni, La bella addormentata – trio di balletti eseguiti in tutto il mondo – e March of toys.
Alcune volte componimenti per orchestrali come il Nabucco di Verdi, il Barbiere di Siviglia di Rossini, il Bolero di Ravel, il Requiem di Mozart e molti altri sono definiti come semplici brani orecchiabili, ma per la loro bellezza e per le loro caratteritiche devono esser definiti semplicemente come pura poesia.
Questo è il caso di uno dei più grandi componimenti per violino e orchestra, il Concerto per violino in Re maggiore Op. 35 di Tchaikovsky. Dopo le prime critiche, il brano divenne in pochissimo tempo, grazie alle numerose esecuzioni in Europa – specialmente al teatro Bolshoi di Mosca, patria di Tchaikovsky –, uno dei più importanti concerti per violino.
Il componimento si divide in tre parti:
I) Allegro moderato.
II) Canzonetta o Andante.
III) Allegro vivacissimo.
La maestosità di questo brano si manifesta nella prima parte, dove il tema con le note alte, stridule del violino e il tempo moderato, che rievoca i momenti tristi e malinconici, lascia spazio improvvisamente alle volatine, alle scale e agli arpeggi dello stesso solista, con numerosi cambi di tempo, e si contrappone sempre allo stesso tema, questa volta riproposto dall'orchestra, ma in un tempo molto più allegro.
La prima volta che ho sentito questo brano è stato nel corso del film "Il concerto", basato proprio su questa composizione di Tchaikovsky, ed è stato "amore a prima vista". Per cinque giorni non sono riuscito ad ascoltare nessun altro brano oltre questo: mi aveva colpito molto, sia per le volatine e per gli arpeggi veloci del solista, sia per la bellezza del tema riproposto, nel movimento maestoso e in quello triste.
Altro che Giovanni Pascoli, questa sì che è una poesia.

giovedì 24 novembre 2011

Breve storia della scrittura

di Manlio Adone Pistolesi

La scrittura è stata una delle invenzioni piú importanti della storia; quest'ultima non esisterebbe senza l'invenzione della scrittura. Non si conoscono precisamente le origini di essa, ma la piú antica appartiene ai Sumeri che rappresentavano oggetti e parole con dei cunei; da questa rappresentazione deriva il termine «cuneiforme».
In Paesi piú o meno lontani, la scrittura assomigliava molto a quella sumera, basti pensare ai geroglifici egizi. Ma su qualcosa tutte le scritture concordano: il fine di lasciare una traccia ai posteri: narrazioni di guerre, poesie, opere teatrali e tutto ciò che ci ha permesso di comprendere il passato. Il termine «storia», senza queste fonti di sapere scritte, non esisterebbe. Si definisce comunemente «storia» il periodo che va dalle piú antiche scoperte relative alla scrittura ad oggi. La «preistoria», ciò che viene prima della «storia», viene così chiamata perché non si possiedono fonti scritte sulle quali fare affidamento, quindi le uniche cose che ci possono informare su di essa sono i ritrovamenti archeologici.
Però, se ci pensiamo, la scrittura si é evoluta fino ad oggi. Infatti, non tracciamo più cunei, geroglifici o ideogrammi. La nostra scrittura, il nostro patrimonio cartaceo, deriva dall'alfabeto fenicio. Questo popolo di marinai e navigatori, non potendo espandersi lungo i confini della loro madrepatria, decise di andare alla conquista dell'Ignoto. I Fenici, infatti, non sapevano cosa li aspettasse o cosa avrebbero trovato al di fuori del Libano (l'odierno stato che sorge sull'antica patria dei Fenici). Per questo, anche per via delle piccole navi che avevano in possesso, svolsero un viaggio "costa a costa". Ciò gli permise di attraversare tutto il Mediterraneo da tappa in tappa, e con essi portarono anche il loro sapere, insieme alla loro scrittura. I Fenici non sono ricordati come grandi conquistatori, ma come colonizzatori; popolarono infatti soprattutto i villaggi costieri, diffondendo la loro lingua e la loro scrittura, composta solo da simboli consonantici.
La fase evolutiva del nostro odierno alfabeto, tuttavia, non é ancora completa: l'ultimo miglioramento é stato apportato dai Greci. Non sappiamo ancora con certezza perché le poleis greche cambiarono lingua, dalla lineare B all'alfabeto fenicio, ma esse, dopo un "periodo buio" dovuto all'invasione dei Dori, adottarono la nostra odierna scrittura con l'aggiunta delle vocali alfa, epsilon, eta, iota, omicron, ypsilon e omega.
Oggi le lingue nel mondo sono diverse, ma ognuna ha qualcosa in comune con l'altra. I linguisti, studiando le lingue antiche, si sono accorti che molte si assomigliavano, e tuttora quelle che sono derivate da esse mantengono alcune somiglianze con lingue all'apparenza molto diverse. Una delle ipotesi sostenute riguarda l'influenza di un popolo originario delle steppe russe. Secondo gli studiosi questi popoli discesero dalla Siberia e si divisero "a ventaglio": alcuni andarono oltre il fiume Indo, altri verso il Vicino Oriente e l'Europa. Quindi la nostra lingua potrebbe derivare da alcuni popoli capaci di "colonizzare culturalmente" tutti gli altri.
La scrittura era, è, e sarà il mezzo con cui potremo narrare e descrivere la Storia della nostra specie. Mentre scrivo questo articolo, sto facendo storia. Come disse Theodore Roosevelt, «per conoscere il futuro bisogna conoscere il passato, perché prima o poi questo si ripete».

I giovani e l'alcol


di Samuele Tripodi

Il consumo di alcolici tra i giovani sta diventando un problema a causa dell’età sempre meno elevata dei bevitori. Quali sono le cause del fenomeno ed i possibili mezzi per arginarlo?
Oggigiorno i giovani hanno tantissimi modi per divertirsi grazie ai tanti parchi-gioco, campi sportivi, palestre, e le molte altre risorse di svago che le moderne città ci offrono. Nonostante tutte queste attrattive i giovani aspettano il sabato sera per svagarsi, per smaltire tutto lo stress accumulato durante la settimana. Ciò che preoccupa maggiormente non è tanto il divertirmento del sabato sera, ma il modo in cui ci si diverte.
Le statistiche evidenziano che giovani fanno uso di alcol e le percentuali sono molto preoccupanti. Gli italiani, senza distinzione d’età, che dichiarano di bere alcolici almeno un giorno alla settimana sono più del 70%. Tra i giovani dai 15 ai 25 anni, tre su quattro fanno abitualmente consumo di alcool, circa il 74%. Ma non è tutto: negli ultimi anni le statistiche dimostrano che le ragazze bevono molto di più! Sono circa il 67% le ragazze che iniziano a bere alcolici prima del quindicesimo anno di età.
Purtroppo, questo problema sta prendendo il sopravvento sui giovani d’oggi; che fare allora?
I genitori dovrebbero essere più presenti con i loro figli, dovrebbero stargli accanto in tutti i momenti, specie in quelli di difficoltà, perché la principale causa dell'alconismo giovanile coincide con l'assenza o il mancato controllo delle figure-cardine del contesto familiare. Da parte loro, i giovani non devono annegare i loro problemi nell’alcol, anche perché questa sostanza non fa altro che alimentarli.

domenica 20 novembre 2011

Chi siamo? Da dove veniamo? Perché siamo qui?


di Manlio Adone Pistolesi

Molti filosofi, poeti e scienziati ci hanno definito come un agglomerato di polveri stellari, un miscuglio di elementi chimici, un complesso gruppo di pensieri e immaginazioni... Altro non siamo che un frutto dell'evoluzione: un insieme di casi fortuiti che hanno contribuito alla nostra origine.
Ma perché noi?
Grazie ad un insieme di eventi quali una posizione favorevole del pianeta nello spazio e ad altri accadimenti catastrofici che hanno fatto estinguere le grandi lucertole carnivore ed erbivore, i mammiferi hanno potuto incominciare a conquistare il pianeta Terra e ad evolversi fino alle forme attuali.
I nostri antenati, le scimmie antropomorfe, non erano molto diverse da quelle di "oggi". La vera differenza sta nella capacità di camminare. Infatti, al contrario di ciò che molti credono, le scimmie incominciarono ad acquistare una spiccata curiosità quando scesero dagli alberi delle foreste e incominciarono a camminare su due zampe. Questo semplice atto fu per noi il "primo passo" verso una veloce evoluzione che ha come prodotto il genere umano.
Insomma, il genere umano non é altro che un caso fortuito, un prodotto inaspettato dovuto a condizioni favorevoli. I primi uomini non solo dovevano sfidare la natura, ma anche l'evoluzione. La postura eretta comportò diversi cambiamenti. L'uomo stando alzato sui due arti posteriori, nonostante la piccola altezza – 1,30/1,50 metri –, poteva osservare il mondo con tutt'altra prospettiva. Poteva avvistare i predatori e le prede a distanza, e questo comportò un'evoluzione della sua vista. Con la postura eretta poteva raggiungere gli alberi e raccogliere frutti. Questo cambiamento posturale modificò anche il corpo stesso dei nostri antenati: l'osso del piede si abbassò fino a toccare terra ed ebbe una maggiore aderenza al suolo, sviluppando ulteriormente la capacità di corsa. La schiena si raddrizzò e le mani, che fino a quel momento erano servite per poter camminare, diventarono futili; per questo motivo, i nostri antenati – i vari Homines – cercarono di impiegarle in altro modo. Quindi, dal piccolo atto di un quadrupede che diventa bipede, si genera una specie nuova, progredita e pronta a conquistare il mondo. Sin dai primordi della storia a noi conosciuta l'uomo ha cercato sempre di migliorare la sua vita attraverso le innovazioni tecnologiche. Le diverse innovazioni tecnologiche e scientifiche, sempre più rivoluzionarie, che l'uomo attuò, servivano a dominare la natura circostante, terrificante e brulicante di pericoli.
L'essere umano é dunque il frutto di un'evoluzione complessa e diversificata. La storia dell'uomo, confrontata con la nascita del pianeta e paragonata ad un coevo calendario, rappresenta soltanto l'ultimo minuto del 31 dicembre. Questo dimostra quanto la nostra evoluzione sia stata veloce e pericolosa, se teniamo conto di tutti fenomeni catastrofici che abbiamo dovuto affrontare.
Oggi, possiamo definirci come i dominatori della Terra. Ma saremo capaci di gestire il nostro pianeta? Svilupperemo macchinari futuristici capaci di migliorare ulteriormente la nostra vita? Raggiungeremo mai altri Esopianeti? A quali ostacoli andremo incontro?
Come disse Einstein in uno dei suoi celebri aforismi, «Non sarei un vero scienziato se non credessi all'ignoto».

lunedì 14 novembre 2011

A CACCIA DI LUOGHI COMUNI: breve storia delle dissimulazioni religiose al potere

di Natale Zappalà (*)


Le religioni per così dire statali (quelle istituzionalizzate, o comunque percepite come “ufficiali” all'interno di un gruppo umano) hanno sempre svolto, da un punto di vista strettamente politico, il delicato ruolo di inquadrare il corpo civico, tenendone a freno e condizionandone il pensiero, attraverso ciechi dogmatismi o formalismi meccanici. D'altro canto, gli uomini di potere, consci di tale pregevole valenza, hanno sempre saputo celare dietro uno spietato pragmatismo un'ipocrita apparenza di pietas; in altre parole, mostrandosi ligi nel seguire ideologie, prescrizioni e ritualismi delle religioni tradizionali agli occhi del popolino, nel privato se la ridevano dell'ignoranza e della creduloneria della gente comune.
Tanto per fare qualche esempio illustre, nell'Egitto della XVIII Dinastia (XIV sec. a.C.), il faraone Akhenaton inventò la prima forma documentata di monoteismo, il culto del disco solare Aton, soprattutto per sottrarre alla casta scribo-sacerdotale devota di Amon-Ra (il sole mitologico) il prestigio derivante dal monopolio delle pratiche religiose connesse con templi, sacrifici e offerte. Questioni politiche ed economiche dunque, sapientemente mascherate dal ricorso all'ultramondano.
All'interno del mondo greco-romano la religione – il cui ciclo di festività aveva anche la funzione di scandire il tempo e ricompattare le cittadinanze attraverso processioni o banchetti rituali – si risolveva essenzialmente in un legame contrattuale fra uomini e dei: i primi onoravano i secondi, riservandogli l'onore (timé) che gli spettava, il tutto al fine di scongiurare un ipotetico castigo divino; questo, almeno, era quello che credevano le masse. Tale aspetto prettamente ritualistico induceva tutti coloro che avvertivano l'esigenza di intrecciare rapporti più “spirituali” con il mondo soprannaturale, rifugiandosi in culti maggiormente coinvolgenti come quelli misterici, durante i quali i fedeli ritenevano di instaurare un contatto diretto (detto di sympatheia, «patire insieme») con la divinità. Ciò non impediva a personaggi autorevoli come Alcibiade nell'Atene del V sec. a.C. di sbeffeggiare i celebri misteri eleusini, parodiando in casa propria quelle stesse cerimonie, per altro segretissime e aperte ai soli iniziati, in cui i suoi concittadini mostravano di credere così sinceramente.
Ma il primo posto nella speciale classifica dei grandi dissimulatori religiosi dell'antichità spetta sicuramente a Giulio Cesare, capace di conciliare una spiccata e snob laicità fattuale con l'esercizio della massima autorità sacrale romana, il pontificato massimo. In un contesto dove ogni azione pubblica era accompagnata dall'esecuzione di riti beneaguranti, gli auspicia, fu capace, quando inciampò malamente sbarcando in Africa durante la guerra civile, di volgere in positivo il presagio funesto, gridando: «Teneo te, Africa!» («Ti tengo, Africa).
L'avvento del cristianesimo non mutò l'atteggiamento degli uomini di potere: Costantino ne liberalizzò il culto per convenienza politica, avendo scorto nell'organizzazione ecclesiale, naturalmente gerarchizzata e dotata di un controllo capillare sul territorio, un efficace potere suppletivo delle autorità municipali romane in decadenza.Tuttavia, il buon imperatore non ne volle mai sapere di battesimo, se non in punto di morte e, per di più, ricevendo il sacramento da un vescovo ariano, un “eretico” per la Chiesa di Roma.
La lista degli aneddoti sulle dissimulazioni religiose dei potenti sarebbe troppo lunga se si enumerassero tutti i casi che affollano la Storia. Basterà, limitandoci alla Storia dell'Occidente e alla categoria dei papi, precisare che molti di essi, specie i più dotti (come Silvestro II, il “papa-mago” dell'anno Mille o Pio II, al secolo l'umanista, nonché autore di racconti erotici, Enea Silvio Piccolomini), furono tacciati di “ateismo”, proprio perché, al riparo delle esigenze spirituali delle moltitudini, se ne ridevano di dogmi e prescrizioni. Per non parlare poi di tutti quei pontefici – da Bonifacio VIII ad Alessandro VI, i riferimenti pullulano – che fornicarono, procrearono, specularono, raccomandarono e, soprattutto, strumentalizzarono politicamente il proprio primato sui cattolici, con buona pace della povertà evangelica, dei dieci comandamenti e di tutte le norme alle quali i fedeli erano invitati a conformarsi; «fa' come il prete dice, e non come il prete fa!», il motto è azzeccatissimo. Persino oggigiorno i beninformati sono pronti a giurare che nel segreto delle stanze vaticane il teologo Benedetto XVI la pensi diversamente da ciò che sostiene in pubblico circa la transustanziazione, l'omosessualità, il celibato dei preti, i rapporti sessuali prematrimoniali o sull'uso del preservativo.
Un uomo di potere, se si mostra “pio” risulta sovente bene accetto agli occhi del popolo, e questo a prescindere dal ruolo che egli ricopre; non a caso i capi di stato sono soliti farsi riprendere dalle telecamere quando vanno in chiesa o in moschea. Insomma, la Storia non è cambiata, e come sosteneva il cardinale Richelieu «saper dissimulare è la scienza dei re»; specie quando si tratta di religione, aggiungiamo noi.

(*) Fonte: www.natalezappala.it

lunedì 7 novembre 2011

«No, mi scusi, stavo pensando»

di Stefania Guglielmo

Viveva in un piccolo borgo un uomo curioso che, proprio a causa della sua estrema invadenza, era solito fermarsi a parlare con chiunque destasse il suo interesse.
Fu così che una mattina di fine estate scorse, adagiato su una sedia a guardare il mare, un uomo pensieroso, e subito si chiese a cosa stesse pensando quel misterioso personaggio.
L’interesse in lui era così vivo che il curioso si accomodò affianco all’uomo assorto.
Per i primi minuti rimase in silenzio e lo osservò mentre l’altro uomo non notò la sua presenza, tanto era concentrato ad inseguire i suoi pensieri; accadde così che più trascorreva il tempo in cui egli lo osservava, più quel bizzarro modo di fare accresceva la sua curiosità.
L’uomo curioso finalmente cedette e così esordì:
«Buongiorno!»
Ma non ottenne risposta; l'uomo era così pensieroso da non udire le parole del curioso! Allora, imperterrito, ripeté con voce più acuta:
«Buongiorno!»
A quel punto l’uomo pensieroso sussultò e rispose:
«Buon… Buongiorno! Mi scusi, stavo pensando».
«Eh... L’ho notato! A cosa pensava di così importante ?», chiese il curioso.
«Pensavo alla mia vita», rispose l'uomo meditabondo.
«Se potessi ascolterei la sua storia. Mi incuriosisce, lo sa? Lei stava pensando a qualcosa di troppo intenso per accorgersi di ciò che le accadeva intorno», controbatté il curioso.
«In realtà io credo che non le piacerebbe udire la mia storia; se potessi la cambierei!»
L’uomo curioso, dopo questa enigmatica affermazione, non riuscì a contenere oltre la sua sete di conoscenza, e così insistette finché il suo interlocutore non iniziò a narrare le molteplici peripezie da lui vissute. Sembrava proprio sfortunato!
Tuttavia, mentre l’uomo curioso iniziò a chiedersi fra sé e sé come potessero accadere tante sciagure ad un solo individuo, giunse un altro personaggio, che subito catturò il suo volubile interesse. L'uomo assorto ne approfittò per estraniarsi di nuovo dal resto del mondo.
L’uomo curioso, voltatosi, aveva scorto un giovane ragazzo dal sorriso luminosissimo e gli domandò chi fosse. Il giovane cominciò così a descriversi con allegria, parlando con consapevolezza di ogni suo sogno e di ogni sua idea. Dopo di che si avvicinò all’uomo pensieroso, e sfiorandogli la spalla gli chiese:
«Come stai papà? Ti va di sapere cos'ho fatto oggi ?»
L’uomo pensieroso, inizialmente stupito, annuì, e così il ragazzo cominciò la sua narrazione, ma, sorprendentemente, durante il discorso del figlio, il padre si estraniò nuovamente, e quando il giovane chiese la sua opinione si accorse di non essere ascoltato già da un pezzo.
Se ne andò profondamente deluso, rimanendo ancora più frustrato nell’accorgersi che il padre non aveva notato la sua assenza.
L’uomo curioso, che aveva attentamente assistito alla scena, rimase esterrefatto, e così decise, per un mese intero, di tornare tutte le mattine a sedere con quell’uomo pensieroso.
Con l’andar del tempo, si accorse che il fanciulo, che speranzosamente tentava di dialogare col padre, diveniva gradualmente sempre più cupo, duro e chiuso, e finì per evitare qualsiasi domanda postagli da quell’uomo che mai udiva le sue risposte.
Trovandosi lì, un giorno, l’uomo curioso notò qualcosa di diverso nello sguardo del fanciullo, e quasi senza riconoscerlo gli chiese chi fosse…
Questi, stupito, chiese se fosse davvero interessato a saperlo, ma, dopo l’entusiasmo iniziale – che che per un attimo gli restituì le sembianze d’un tempo –, incupitosi, proferì tali parole:
«Io non sono degno di essere ascoltato». Si alzò di fretta e fuggì via.
Atterrito da ciò che aveva udito, il curioso si voltò verso l’uomo pensieroso, ancora assorto, richiamò la sua attenzione e gli chiese:
«Com'è potuto succedere tutto ciò? »
Questi lo guardò perplesso e poi rispose:
«Di cosa parla buon uomo?».
«Non si è accorto proprio di nulla?», disse l'altro.
E l’uomo pensieroso così concluse:
«No, mi scusi, stavo pensando».