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venerdì 11 ottobre 2013

"Lampedusa"

di Fulvio Cama



Lampedusa


Veni di sud e spera d’ arrivari,
Nda ddhu giardinu ammenzu di lu mari,
Ma havi a passari un mari senza Diu,
Nda chiddhu mari puru Diu muriu!


Cu l’occhi niri culuri ill’abissi,
Fimmina beddha prega e dici missi,
Purtandu ‘n grembu lu so criaturi,
Brazza cunserti mi nci fa caluri.


Fami e stanchizza pi la traversata,
Ciangi la mamma è tristi e dispirata,
Ma quandu c’oramai è disillusa,
Ci appari la costa di Lampedusa.


Nci veni forza e nu sorrisu nesci,
Di ddhu sorrisu u figgiu soi si pasci,
La costa si fa sempri chiù vicina,
Si senti sciauru i terra marina.


Ma chiddhu è mari aundi Diu muriu,
E lu barcuni an botta si firmau,
Passa n’istanti e pi fari signali,
Mpiccica focu e l’attimu è fatali!


Brucia la barca e affunda tra li flutti,
Avidu mostru subitu sa ‘nghiutti,
Non lassa scampu non duna riparu,
Assassinu e di viti umani avaru.


Mamma scindi a lu fundu senza scampu,
Ma prima di la morti ultimu lampu,
Cu l’acqua chi lu pettu nci rinchiu,
Lu so figghiolu u stessu u parturiu.


Ma fatu assai crudeli e assai spietatu,
Mmazza la mamma cu figgiu attaccatu,
Chi si curduni spezza nda ddhu mari,
Figghiu chi nnata iddhu u sapi fari!


Di chiddha scena ‘nfami ed impietusa,
Chi la natura tutta la ricusa,
Puru li pisci cani fa ciangiri,
E nda ddhu locu non vonnu mangiari.


Puru l’ultimu diavulu s’indigna,
Comu si poti dari sta cundanna?
E a chiddhi chi rifiutanu sta genti:
iddhi i me frati, e vui non siti nenti!”


(Traduzione italiana)

Viene dal Sud e spera di arrivare
In quel giardino in mezzo al mare
Ma deve attraversare un mare senza Dio
In quel mare anche Dio è morto!


Con gli occhi neri color degli abissi
La bella donna prega e dice messe
Portando in grembo la sua creatura
Con le braccia conserte per fargli calore.


Fame e stanchezza per la traversata
Piange la mamma è triste e disperata
Ma quando ormai è disillusa
Appare la costa di Lampedusa.


Gli viene forza ed un sorriso le esce
Di quel sorriso il suo figlio si nutre
La costa si fa sempre più vicina
Si sente l’odore della terra marina.


Ma quello è mare dove Dio è morto
Ed il barcone di colpo si ferma
Passa un istante e per fare un segnale
Appicca il fuoco e l’attimo è fatale!


Brucia la barca e affonda tra i flutti
Un avido mostro subito la inghiotte
Non lascia scampo, non da riparo
Assassino e avaro di vite umane.


La mamma scende a fondo senza scampo
Ma prima di morire un ultimo lampo
Con l’acqua che il petto le ha già riempito
Il suo figliolo lo stesso ha partorito


Ma il fato assai crudele e assai spietato
Ammazza la mamma col figlio attaccato
Che se si fosse spezzato il cordone nel mare
Il figlio può nuotare perché lo sa fare


Di quella scena infame ed impietosa
Che tutta la natura ricusa
Anche i pesci cane fa piangere
Ed in quel luogo non vogliono mangiare


Anche l’ultimo diavolo s’indigna
Come si può dare questa condanna?
E a quelli che rifiutano questa gente:

“Loro sono miei fratelli e voi siete niente!”

giovedì 14 febbraio 2013

Il Grand Tour nella Calabria greca

di Franco Tuscano











Libri e scritture di viaggio (la cosiddetta “letteratura odepòrica”, ovvero, “attinente al viaggio”), si intensificano grazie alla pratica del “ GRAN TOUR”, attraverso cui, a partire dalla fine del ‘600-inizio ‘700, i rampolli europei di buona famiglia completano gli studi “puntellando” il proprio background culturale. Fin dal principio, si evince che tra le mete preferite dai viaggiatori c’è il “Belpaese”: l’Italia, tappa obbligata in seguito alla rinnovata cultura umanistica, in quanto, tra il XV e il XVI sec., la nostra penisola è “la grande officina di una rivoluzione artistica di assoluto rilievo internazionale”.
La Calabria, quella ionica in particolare, è rimasta però sempre ai margini degli itinerari di viaggio che interessano invece, seppur parzialmente, la costa tirrenica fino a Reggio, meta ultima del traghettamento verso la Sicilia. L’Aspromonte estremo poi, “ in finibus Calabriae”, -frontiera culturale, perché, roccaforte greca in terra latina, ma soprattutto “cerniera”, “anello di congiunzione” fra Oriente e Occidente- appare un’isola remota e immobile, “nel tempo ma fuori dal tempo”( T.S. Eliot), fuori dalla storia, separata non solo fisicamente ma anche culturalmente dal resto dello “stivale”; una terra rimasta “off limits” a gran parte dei viaggiatori (lo stesso Goethe “salta” la Calabria) e colpevolmente ignorata, quando non –addirittura- mistificata dalla storiografia.
Oltre che terra irraggiungibile, essa non gode di una buona reputazione, in quanto, gravata dal forte pregiudizio relativo alle sue “proverbiali insidie”, rappresentate soprattutto dalla presunta pericolosità dei suoi abitanti, descritti come briganti, ladri e assassini.( A tal proposito, è curioso far notare che, il grandissimo Rohlfs,- il quale amava l’Italia e adorava la Calabria, di cui arrivò a visitare 365 località…- avesse confessato che l’unico furto subìto in Italia, in più di 60 anni di continue visite, si fosse verificato a Roma e, per di più, ad opera di un suo connazionale…). Intraprendere un viaggio in Calabria,- parentesi a parte - diventa perciò una sorta di “avventura al buio” che pochi sono disposti ad affrontare, anche se, è bene precisarlo, le considerazioni iniziali vengono spesso riviste e quasi sempre ribaltate ed i pregiudizi cancellati dal contatto diretto con la gente di Calabria, che ha sempre manifestato, nei confronti di qualsiasi visitatore, la sacralità del valore dell’ospitalità, che affonda le sue radici nella antica “xenìa” di matrice greca. Quindi, le (presunte) insidie “naufragano” sistematicamente ed ineluttabilmente di fronte ai sentimenti ed ai comportamenti xenòfili, profondamente “scolpiti” nel cuore e nella mente del popolo calabrese.
Nonostante i pregiudizi di cui sopra, dopo il Barrio (fine ‘500) e il Pacichelli (inizio ‘700), la Calabria, fra la metà del ‘700 e il ‘900, è meta prescelta di viaggiatori provenienti da varie parti d’Europa( per citarne alcuni:Dierkens, Vivant-Denon, Saint-Non, Swinburne, Witte, Strutt, Keppel-Craven, Lear, Douglas, Tuzet, Destreèe, ecc.).
Le pagine di questi scrittori, che per lo più percorrono i loro itinerari a piedi ( Douglas a cavallo, Tuzet in auto-siamo nel primo ‘900-), sono memorie che prendono forma di giornali di viaggio, di approfondite inchieste sociali, di suggestive note antropologiche, che proiettano la Calabria in generale e l’Aspromonte estremo in particolare, in una dimensione quasi eterea, una terra insidiosa ma bellissima e seducente, che si svela- come mirabilmente sottolinea Edward Lear- con due “facies”: infernale e paradisiaca.
E’ lo stesso viaggiatore inglese che, durante il suo “tour” a piedi nella provincia di Reggio Calabria(1847), nota ed annota nel suo taccuino di viaggio, le forti contraddizioni di una terra dal fascino indiscutibile, in cui tutto si compenetra: leggenda e storia, mare e montagna, mitologia misticismo, oriente e occidente, latinità e grecità. Lo scrittore e paesaggista, divenuto celebre per il suo rimare “nonsense” ed a cui è “intitolato” il famoso e suggestivo “sentiero dell’inglese” nello hinterland dell’Area Grecanica, non omette di segnalare che, ovunque, sebbene si vivesse una fase difficile dal punto di vista economico-sociale-politico, le persone da lui visitate non avevano assolutamente smarrito il loro radicatissimo, “religiosissimo” senso dell’ospitalità.
La Calabria è, quindi, una terra “dall’anima greca”, se è vero come è vero che, (anche) i tanti viaggiatori stranieri ne hanno evocato e decantato - oltre che le bellezze naturalistiche e paesaggistiche- soprattutto le “bellezze dello spirito” della gente di Calabria, forgiato e plasmato-senza soluzione di continuità- attraverso millenni di storia e del quale(spirito), l’inalterabile sacralità della “filoxenìa”, di omerica memoria, ne è fedele, esemplare, straordinaria interprete…

lunedì 19 novembre 2012

L'estinzione dei dinosauri

di Francesco De Biasi

Uno dei misteri più affascinanti del quale l’uomo si è sempre occupato, e che non è ancora riuscito a risolvere, riguarda la scomparsa di alcuni fra i primi esseri viventi, vissuti circa 65 milioni di anni fa. I dinosauri. La causa riguardante la loro estinzione di massa è ancora da scoprire, anche se buona parte degli studiosi moderni è d’accordo sul formulare un’importante ipotesi, la quale afferma che la catastrofe sia avvenuta a livello planetario e che inoltre coinvolse l’intero ecosistema globale. È ancora da accertare la provenienza di tale catastrofe, bisogna cioè capire se codesto evento abbia origini terrestri oppure esterne, provenienti dallo spazio.
Nel primo caso (origini terrestri) si potrebbe considerare come causa la variazione dell’inclinazione dell’asse terrestre, che avrebbe avuto conseguenze distruttive dal punto di vista ambientale e climatico, oppure l'esagerato incremento dell’attività vulcanica sulla terra che porterebbe alla produzione di gas e fumi e ovviamente dell’effetto serra, che ha poi impedito il normale svolgimento della vita sul nostro pianeta. Ma questi sono eventi che avrebbero dovuto avere di certo molto più tempo per creare un cataclisma del genere, inoltre bisogna considerare l’effetto della catastrofe nei confronti dell’intera specie animale. A questo proposito sembra molto più accreditata la seconda ipotesi (origini esterne, spaziali) la quale afferma che la terra sia stata soggetta a una pioggia di meteoriti che mise fine all’esistenza dei dinosauri. Per capirci meglio, un meteorite è ciò che rimane dopo l’ablazione atmosferica (processo di rimozione di materiale dalla superficie di un corpo attraverso la vaporizzazione e l’erosione) di un meteoroide entrato in collisione con la terra. Praticamente è ciò che del corpo raggiunge il suolo terrestre. La causa della scomparsa dei dinosauri è ancora in fase di studio, anche se gli unici indizi di rilevazione scientifica sono l’improvviso aumento dell’iridio sulla terra e l’evento di Tunguska.
Tunguska è una località che si trova in Siberia ed è famosa proprio per essere stata il luogo dell’impatto di un grande meteorite. Questo avvenimento risale al 30 giugno del 1908. Le conseguenze furono catastrofiche. Basti pensare che furono abbattuti circa 50 milioni di alberi in circa 2100 km quadrati dal punto dell’esplosione. L’esplosione ebbe inoltre effetti diversi a seconda della distanza: a 1000 km fu udito un rumore assordante, a 600 km fu deragliata la ferrovia transiberiana, a 500 km alcuni abitanti videro una nube di fumo alzarsi all'orizzonte e addirittura a circa 60 chilometri un testimone diretto (Semenov ) ci racconta di aver visto il cielo spaccarsi in due parti e subito dopo richiudersi, per poi essere scaraventato a diversi metri di distanza. Attraverso degli studi si è giunti alla conclusione che la forza dell’impatto si aggira attorno ai 10 e i 15 megatoni.
Tale fenomeno può essere spiegato solo dall’esplosione di un asteroide sassoso (l’asteroide è un corpo celeste simile alla terra per composizione ma più piccolo e di solito privo di forma sferica) di circa 30 metri che si muoveva ad una velocità di circa 16 kilometri/secondo. La distruzione del corpo celeste è avvenuta
a circa 10 km di altezza e la resistenza dell’atmosfera quasi sicuramente ha dovuto frantumare l’asteroide e la vaporizzazione è stata causa della gigantesca onda d’urto. Possiamo riscontrare però da una simulazione da parte della NASA che si può escludere l’ipotesi della natura ferrosa e carbonacea dell’asteroide e considerando inoltre studi approfonditi sulla densità si è arrivati alla conclusione che sia molto improbabile che l’evento di Tunguska sia stato provocato da una cometa (corpo celeste relativamente piccolo simile a un asteroide ma composto prevalentemente da ghiaccio).
Gli alberi caduti in seguito all'evento di Tunguska (1908)
Un’ altra simulazione più recente, effettuata a Mosca, conferma l’ipotesi della vaporizzazione dell’asteroide a circa 8 chilometri di distanza dall’impatto e un'altra ancora del 2007 ha calcolato che la forza d’impatto è stata di circa 4 megatoni.
La presenza di Iridio e l’evento di Tunguska ci aiutano a capire quanto la vita di noi esseri viventi dipenda dallo spazio e da ciò che avviene in esso. Ovviamente tutto ciò suscita molta paura e preoccupazione tra la gente. In effetti molti studiosi si sono posti la domanda di quale potrebbe essere la percentuale di rischio di impatto di asteroidi o comete sulla terra. Considerando che negli ultimi secoli le scoperte scientifiche sono state importantissime, possiamo realmente renderci conto della vulnerabilità della terra rispetto ai corpi celesti presenti nello spazio. Dopo l’evento di Tunguska non ci sono state, fortunatamente, altre simili catastrofi. Adesso sappiamo, però, che la nostra parziale tranquillità potrebbe essere bruscamente interrotte da una visita inaspettata di un oggetto cosmico la cui orbita transita nei pressi della terra.
In futuro ci saranno sicuramente degli astronomi concordi nel prevedere un impatto sulla terra ed essi per capire la percentuale di pericolosità dell’evento si rifaranno ad una scala creata da Richard Binzel, chiamata NEO, near-Earth, che va da grado 0 a 5 in ordine crescente di pericolosità. Gli astronomi stimano che gli asteroidi vicini alla terra siano circa 10000 ma tuttavia se ne conoscono solo 350. Il loro diametro è di circa mezzo chilometro e un loro ipotetico impatto con la terra non coinvolgerebbe tutto il genere umano ma circa il 25%.
Un’importante e piacevole notizia ci è giunta recentemente rivela che la percentuale di impatti con oggetti simili a quello dell’evento di Tunguska è di uno ogni 600 anni. L’unica soluzione possibile è quella di sperare di ricevere notizie positive e rassicuranti da parte dei planetologi e degli astronomi.

domenica 9 settembre 2012

Jeu mi ndi vaiu a Festa!


Poesia in vernacolo di Pasqualino Placanica

Minatimi ntall'anchi,
minatimi nta testa,
pigghiativi a me machina,
ma non mi tuccati a Festa!

Si siti latriceddi,
si non pavati i tassi,
si 'mpaticati all’atri,
si bbandunati i cani,

c’è u Quatru da Madonna
non vi nd’ancarricati,
chi poi pi novi sabati
vi spetta mu priati.

A festa dura jorna,
a vita tanti anni,
prima iti a Prucessioni,
e poi faciti danni.

Se quandu cala u Quatru
'nci iti puru appressu
allura stati certi
chi poi tuttu è permessu.

Si vui cuntati mbrogghi
e’ cittadini i Rriggiu
dicendu: “tuttu è a postu
acca nui simu i megghiu!”

allura stati certi
chi si a Vara 'ncoddati
puru sti peccateddi
vi sunnu perdunati.

E jeu chi staiu mi vardu
chi mi mbilenu u sangu
mi viu sfilari genti
chi mancu si virgogna

a spettu u stessu, a Festa,
mi ‘nzonnu chi stavota
u Quatru si ribella
e i manda a ddu paisi.

Ma non succeri nenti,
sunnu tutti cuntenti,
pari chi non è veru
chi nd’hannu a dari cuntu.

E allura mi cunsolu
pensandu chi c’è sempri
speranza ch’i Rriggini
capisciunu c’u Quatru

non faci nenti sulu,
havi bisognu i fatti
voli vidiri a genti
chi cerca mi reagisci

voli vidiri a genti
chi jiasa a testa e dici
chista città è a nostra!
mi si ndi vannu i latri!”

Minatimi ntall'anchi,
minatimi nta testa,
pigghiativi a me machina,
jeu mi ndi vaiu a Festa!

Il pastore reggino


Racconto di Pasqualino Placanica

Era l’estate del 1970, a Reggio Calabria erano appena scoppiati quelli che saranno poi definiti “i moti di Reggio”, dappertutto la popolazione scendeva in strada a manifestare contro l’emarginazione della città da parte del governo centrale; in un solo colpo l’arroganza del potere stava per annullare una delle città più antiche e gloriose della Magna Grecia. Natale era un giovane professore di lettere classiche appassionato di lettere antiche e storia, in particolare della storia della sua città. Passione che aveva ereditato dal nonno da cui aveva preso anche il nome, archeologo di valore mondiale e professore universitario di chiara fama. Fin da piccolo, aveva seguito quando possibile il nonno nelle campagne di scavi in posti lontani e pericolosi, acquisendo conoscenze insolite per un ragazzo della sua età. Adesso, però, si trovava sempre con il nonno ad affrontare un avversario imbattibile: la morte. Il maestro di vita che lo aveva cresciuto e forgiato era giunto al termine della sua lunga vita terrena, ed aveva voluto espressamente al suo capezzale il caro nipote. Nel silenzio della stanza semibuia, il vecchio scienziato si rivolse al nipote:
  • So di essere ormai giunto al termine della mia strada; non ho niente da rimpiangere, ho avuto una vita piena di soddisfazioni e di avventure. Ho messo a disposizione della nostra gente quello che è scaturito dal mio lavoro. C’è una cosa, però che non ho mai raccontato a nessuno e che adesso, proprio in questi momenti estremi, mi rendo conto di non avere il diritto di portare con me senza che qualcuno ne prenda conoscenza. Tantissimi anni fa non ho dato la giusta importanza a quanto mi è accaduto.-
Il vecchio professore prese fiato, ed iniziò a raccontare, con voce fioca ma calma e decisa.
  • Nel 1908 avevo trent’anni, l’età che hai tu adesso, anch’io, come te adesso, ero già laureato da tempo ma ancora non avevo ottenuto il credito che mi avrebbe poi portato ad essere considerato uno dei più grandi esperti di storia della Magna Grecia. Avevo partecipato a varie campagne di scavi, ma sempre su siti già conosciuti ed esplorati. Nel tempo libero, in compagnia del mio cane spinone me ne andavo in giro per le campagne reggine in cerca di resti della nostra antica civiltà, senza certamente aspettarmi di trovare chissà cosa; solo un colpo di fortuna avrebbe potuto farmi fare la scoperta che sognavo da sempre. Un freddo giorno di dicembre, in prossimità delle feste natalizie, mi trovavo sulle colline dietro Reggio, all’inizio del torrente Calopinace; il mio cane mi precedeva come al solito, e si intrufolava nella vegetazione con abilità come era sua natura. Purtroppo, o forse per fortuna, ad un certo punto il cane sprofondò in una buca che si era aperta improvvisamente nel terreno. Lo sentivo mugolare e sporgendomi nella buca riuscii anche a vederlo. E vidi anche che in realtà mi trovavo sopra un pavimento di pietra coperto dalla terra e dalla vegetazione. Piano piano riuscii ad allargare l’apertura, asportando altre pietre intorno al buco. Il cane uscì fuori da solo, illeso, e solo allora realizzai di essere sopra una specie di camera sotterranea di fattura antica. Stava facendo buio, e comunque ero sprovvisto di qualsiasi attrezzo utile, perciò ricoprii tutto con delle frasche e rientrai nel paese vicino, dove facevo base presso una famiglia di contadini amici di mio padre. Non feci parola con nessuno di quanto avevo scoperto. La mattina dopo, fornito di corda, lume e attrezzi da scavo, ritornai sul posto e dopo qualche ora di lavoro riuscii ad aprire un varco tale da permettermi di entrare nella stanza sotterranea. Era una stanza vera e propria, spoglia di tutto. Uno dei muri, però, era quasi completamente costituito da una lastra di pietra liscia, ricoperta di terra e ragnatele. Ripulita, la lastra si rivelò essere una stele, su cui era scolpita una lunga scritta in greco antico; un racconto, ambientato alle origini di Reggio, l’antica Rheghion. Credo che la stele fosse originariamente posizionata da qualche altra parte e poi, per qualche motivo sconosciuto, sia stata spostata ed inserita nel muro del manufatto che la ospitava. Impiegai diversi giorni a decifrare cosa ci fosse scritto, ostacolato dalla poca luce e dalla segretezza che mi ero imposto per cautela e, adesso lo ammetto, per egoismo. Volevo prendermi tutto il merito, mi sentivo all’altezza di farcela da solo. E in effetti ce l’avevo fatta, a decifrare la stele. Era scritta in caratteri calcidesi, credo risalisse all’epoca della colonizzazione greca, circa all’ottavo secolo avanti Cristo.-
  • Ma non capisco, nonno; non ho mai sentito parlare di questa stele...- disse il giovane Natale.
  • Infatti, nessuno ne ha mai saputo niente. L’ultimo giorno, quello in cui terminai di decifrarla, mi riproposi di annunciare al mondo la scoperta, che sapevo essere clamorosa, ormai. La mattina successiva, Reggio e tutto quanto la circonda vennero distrutte dal terremoto più catastrofico del nostro tempo; era il 28 dicembre del 1908. Per mesi e mesi io e tutti i reggini avemmo ben altro da pensare. Quando la situazione lo permise, mi recai sul posto della scoperta ma lo trovai sconvolto, irriconoscibile. Enormi massi di roccia pura si erano spostati come niente fosse, dove c’era la collina adesso era pianura, tutti i miei punti di riferimento non esistevano più. Era impossibile individuare il sito, ammesso che la stanza fosse ancora in piedi, cosa che io credetti improbabile. Tornai molte volte sul posto, ma non riuscii neppure ad orientarmi. Non raccontai niente a nessuno. Cosa avrei potuto dire? Chi mi avrebbe creduto, senza alcuna prova? E così per più di mezzo secolo mi sono portato dietro il rimpianto di non aver potuto donare alla scienza un documento eccezionale. Ma da poco tempo, invece, ho capito che la vera ricchezza della mia scoperta non era la stele, ma quello che vi era scritto. Ho capito che è mio dovere far conoscere ai reggini quanto tramandato dai Padri fondatori, e che forse la mia scoperta non è stato un caso. La nostra città vive un periodo buio, mai come adesso è necessario che quanto ho letto in quei giorni sia messo a conoscenza del popolo reggino.-
  • Tu ricordi quello che vi era scritto?- chiese Natale al nonno.
  • Ricordo perfettamente tutto, come se lo stessi leggendo adesso -
Ed il vecchio scienziato iniziò a ripetere la storia che tante volte aveva rammentato con rimpianto:

<<Sulla spiaggia fatta di ciottoli alla foce del sacro fiume Apsias, il giovane Agatos guardava le sue pecore pascolare tranquillamente. Il sole stava per sparire dietro le montagne della terra dei tre promontori, la Trinacria. In quel posto, qualche anno prima era sbarcato con suo padre insieme a tanti altri. Lui era un bambino, a malapena ricordava i luoghi dove viveva prima. I suoi ricordi veri iniziavano proprio con quello sbarco, quando aveva sentito dire a suo padre che quello era il luogo destinato dagli Dei a diventare la loro nuova patria. E così era stato, da anni ormai Agatos ed i suoi compagni di viaggio vivevano a Rheghion sotto il saggio governo del padre. Appoggiato con la schiena al muro di pietre, con la sua mente fervida pensava alla nuova terra che abitava da poco, a ciò che era stato ed a ciò che sarà, navigando con il pensiero verso tempi futuri tanto lontani che forse mai sarebbero arrivati. Agatos immaginava una città florida, come non potrebbe essere altrimenti in un posto come questo; acqua, frutta, selvaggina, mare, sole. E sulle montagne alle spalle legname di qualità per costruire le navi. La terra degli Dei doveva essere molto simile. Immaginava una città sopra le altre, egemone per forza e per diritto. Immaginava un popolo fiero e saggio, emanatore di civiltà e cultura nel mondo conosciuto, ospitale e pronto ad accogliere chiunque venga in pace, viaggiatore o profugo. Immaginava.... L’abbaiare del cane lo distolse dai pensieri: una donna era seduta sul muro, a pochi metri da lui. Agatos non l’aveva mai vista prima, era bellissima, vestita con una tunica bianca cinta da un laccio dorato. Con i capelli dorati raccolti sul capo ornato da un pettine bianco e dei lunghi ricci lasciati cadere lungo le guance rosee, le braccia scoperte ed i piedi scalzi. Lo sguardo rivolto verso il mare, sembrava non accorgersi di Agatos. Mentre il cane continuava ad abbaiare rivolto verso la donna, Agatos si alzò e le si avvicinò. Improvvisamente la donna si girò verso il cane, e lo guardò con quegli occhi che, adesso si vedeva, erano verdi e profondi; il cane smise di abbaiare, e mugolando si accucciò a terra, intimorito.
  • I tuoi pensieri sono quelli di un uomo che ama questa terra profondamente, Agatos -
Le parole non uscirono dalla bocca della donna ma Agatos le udì distintamente.
  • Mi conosci? E come fai a sapere cosa penso? Chi sei? -
  • Troppe domande, per un uomo pieno di certezze come sei tu. Se tu vuoi, sono l’essenza stessa di questa terra, oggi mi vedi così domani forse avrò un’altra immagine; sarò sempre come mi immaginano gli uomini onesti, e mai come mi vogliono i malvagi. Ma sarò sempre io, e questo conta. Tu sei degno di vedermi e di parlare con me, perché hai il cuore puro; ed io ho bisogno di parlare con te, affinché il tuo popolo, che adesso è il mio popolo, sappia ciò che è stato e ciò che è. Quello che sarà non posso dirlo.-
Agatos era affascinato dalla donna, che adesso sorrideva, mentre i suoi occhi erano penetranti come lame, e lui si accorse che la voce che sentiva era dentro la sua mente.
  • Io vi darò quanto di meglio possa avere un uomo in questo mondo: vi darò acqua, terra fertile, flora e fauna, sole e pioggia. Ma voi dovrete farne l’uso giusto. Da questa terra potrete trarre vita e potere, ma ugualmente, se non userete saggezza, trarrete morte e disgrazia. Per questo io non posso dirti cosa sarà, sarete voi, tu ed il tuo popolo e quelli che vi seguiranno a decidere del vostro futuro. Nel tempo mi invocherete, ogni volta che avrete difficoltà chiederete il mio aiuto, ed io ci sarò sempre. Mi chiamerete con mille nomi, mi darete mille aspetti. Gioirò e piangerò con voi, ma non potrò aiutarvi se voi stessi non vi aiuterete. Vai, Agatos, e porta questo messaggio al tuo popolo, che faccia tesoro delle mie parole adesso e nei tempi futuri. -
Così parlò la donna. Il cane riprese ad abbaiare e Agatos si girò di colpo, risvegliatosi dal torpore. Era ormai buio, e intorno a lui non c’era nessuno. >>
Terminato il racconto, il professore disse al nipote:
- Apri quel cassetto - indicò il comodino a fianco del letto - e prendi l’agenda di pelle nera; nelle prime pagine troverai il disegno della stele. L’ho riportata più fedelmente possibile, era buio, la sotto. - E Natale, presa l’agenda, sfogliando le pagine ingiallite dal tempo rilesse in greco antico le stesse parole che il nonno gli aveva recitato poco prima, affascinato dai caratteri antichi che da anni insegnava ai giovani reggini, ma che non aveva mai associato a qualcosa di così reale.
- Questo è quanto era riportato sulla stele, questo è quello che i nostri antenati, cittadini di Rheghion hanno portato avanti, nel bene e nel male, per millenni. Adesso tu sei il custode di un principio essenziale per la stessa esistenza della nostra città, fanne uso, diffondilo tra i reggini, affinché le glorie di Rheghion non rimangano solo antica memoria.-
Con queste parole il vecchio spirò sorridendo; ma la morte del nonno stranamente non intristì il giovane. L’emozione lo assalì, la sua mente immaginò una città viva, fiera, emanatrice di civiltà e cultura nel mondo, ospitale e pronta ad accogliere chiunque venga in pace, viaggiatore o profugo. Immaginò......

P.P.

domenica 5 febbraio 2012

Cogito ergo sum sed tempum nullam essendi est (Penso dunque sono, eppure non vi è tempo di essere)

di Stefania Guglielmo

Il pensiero sembra essersi posto, nel corso del tempo, come il carattere distintivo del genere umano; la facoltà di stupirsi, domandarsi,ricercare, ipotizzare e comprendere sembra infatti un’esclusiva dell’uomo. Il cogere cartesiano è il tassello-base nella struttura dell’essenza dell’individuo: è il pensiero che glipermette di essere ciò che è (uomo) è null'altro. In quest’ottica in cui l’uomo pensa per cui egli è, sillogisticamente, se non pensasse non sarebbe più uomo, ma un qualsiasi altro essere; è ben noto, tuttavia, che all’uomo poco diletta l’esser posto sullo stesso piano degli altri esseri, tant’è che egli innalza la propria esperienza, decantando il possesso di questa sua particolare capacità. Coerentemente con le sue pretese l’uomo dovrebbe dunque dedicare gran parte della propria esperienza esistenziale a questa attività così unica e nobile; ad oggi, però, nella società,creata proprio dall’essere pensante, non vi è tempo di cogere,non vi è tempo di pensare, dunque, non vi è tempo di essere. L’uomo è ora considerato pienamente tale se produce, dunque deve produrre atutti i costi: la sua istruzione, la sua formazione, il suo tempo devono essere finalizzati alla produzione, in quanto un uomo che nonproduce poco si incastra nella odierna società- puzzle, che per esistere deve far sì che tutti i suoi pezzi siano della stessa misura, nella giusta posizione ed immobili, altrimenti rischia di infrangersi irrimediabilmente. In questa prospettiva l’uomo deve impegnarsi per produrre nel massimo tempo di cui dispone e deve farlo tramite il lavoro che di rado è commisurato alle capacità, alle propensioni e alle attitudini dei singoli individui e, di converso, è sempre più spesso assegnato usando come unico parametro il profitto.Detto ciò, si provi ad applicare la definizione cartesiana dell’essenza umana alla situazione sociale che si sta vivendo: la maggior parte del tempo dell’uomo viene impiegata nel lavoro; esso tuttavia non è concepito come un’azione che valorizzal’individualità dell’esperienza di ogni singolo, bensì comel’attività alienante per eccellenza, in quanto costruita, non intorno alle peculiarità dell’individuo, ma intorno all’interesse di una massa informe composta da mille volti, in cui specchiandosi nemmeno uno di essi si riconoscerebbe. In questo quadro l’individuo quando torna ad essere se stesso? Quando vive il proprio tempo,godendo a pieno della propria esperienza? Quando ritorna a soffermarsi ed essere uomo? L’alta esperienza dell’individuo diviene oggi una corsa sfrenata, in cui è licenzioso l’affanno e in cui ci si trova a desiderare di occupare il proprio tempo tramite qualsiasi mezzo pur di non pensare, poiché l’azione più cara all’uomo è divenuta un atto doloroso che conduce alla consapevolezza di non poter essere ciò che si è. Tale mutamento non può essere considerato come una trasformazione evolutiva, in quanto essa comporterebbe l’assunzione di una nuova forma che mantiene alla sua base un’immutata componente sostanziale, il pensiero appunto. In questo caso, invece, si sta tradendo la propria essenza per diventare altro rispetto a ciò che si è, e, si sa, per diventare altro è bene che prima ci si annulli completamente. Ciò che forse si è sottovalutato è che ciò compone un ente permane al permanere della sua esistenza dunque per quanto si ignori o sirimandi arriverà il tempo di cogere, di fare i conti con se stessi, ed il pensiero, che è la più grande arma che l’uomo possiede, se ignorato, al momento in cui inevitabilmente si presenta,potrebbe apparire insostenibile.

martedì 31 gennaio 2012

"Scusate, non ce la faccio più"


"Scusate, non ce la faccio più" è questa l'ultima frase che scrive un imprenditore veneto prima di puntarsi una pistola alla tempia e premere il grilletto. Aveva, invece, solamente quarantatré anni la titolare di un attività di ristorazione, la quale, dopo aver accompagnato la figlia più piccola a scuola, riservandole un ultimo abbraccio, ha preferito esalare l’ultimo respiro gettandosi sotto un treno. Questi sono solo due casi di una silenziosa strage che si sta consumando nel nostro Paese: è sempre crescente, infatti, (circa 25 solo lo scorso anno) il numero degli imprenditori che, strozzati dai debiti, si tolgono la vita. Nel 2011 si sono registrati 8.566 fallimenti, un aumento del 35,5% rispetto al 2009 e, nella maggior parte dei casi, le aziende in questione sono state costrette a chiudere a causa di debiti da usura. Tale fenomeno è, ad oggi, sicuramente alimentato dalla crisi economica che aleggia nell’aere ma, a fare la sua parte, vi è anche e soprattutto un ottuso sistema bancario prepotentemente mantenuto in vigore. Infatti, se in questo periodo ci si reca in un istituto di credito, in veste di cittadini privati o in veste di titolari d'imprese, con l’intento di chiedere un piccolo finanziamento, un prestito temporaneo o un fido, si ha la certezza quasi matematica di ricevere sempre la stessa risposta: "Ci dispiace ma non è possibile". A dimostrazione dell’esistenza di questa “regola” si pongono, di fatto, alcune eccezioni: quei rari casi in cui la concessione avviene a patto che il debito contratto si ripaghi a tassi d'interesse esorbitanti.
Le banche, dunque, non erogano più credito (nonostante abbiano ricevuto dalla BCE un prestito da 50 miliardi di Euro al tasso dell'1% per tre anni finalizzato proprio a rilanciare l'economia tramite i prestiti alle Imprese) e preferiscono conservare il denaro in modo da poterlo investire al momento giusto in titoli di Stato (che rendono il 6%) o per poterlo usare come salvagente nel momento in cui si ritrovano ridotte in braghe di tela.
Dunque un imprenditore, un piccolo pedone che si muove costretto in questa drammatica scacchiera, ha la facoltà di scegliere fra due allettanti opzioni: lasciare che a "strozzarlo" sia lo Stato (tramite Equitalia) o, meglio ancora, il racket (che dispone di tutta la liquidità possibile per soddisfare la domanda). Spesso si sceglie la seconda strada, che apparentemente dà più tempo o quanto meno non effettua l’immediato pignoramento dell’abitazione. Se ci si impegna ad osservare da questa dolorosa prospettiva, è forse un po’ più facile comprendere quelle persone che, vedendo le proprie aziende espropriate o fallite e dovendo licenziare operai padri di famiglia, sentono profondamente lesa la propria dignità e trovano nella morte l'unica soluzione.
Per l'ennesima volta, siamo riusciti a creare un sistema anomalo senza precedenti nel resto del mondo: si fa di tutto per salvare le banche (principale causa della crisi) consegnando nelle mani della criminalità organizzata le imprese (che dovrebbero esserne la soluzione). Non si riesce proprio a capire che la bancocrazia non funziona eppure, se invece che alle banche (mandanti morali di queste morti) la BCE avesse concesso il prestito all'1% di interesse allo Stato Italiano, molte attività si sarebbero rimesse in moto e, forse, qualche bambino godrebbe ancora dell’affetto dei propri genitori.

Francesco Denaro