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domenica 20 febbraio 2011

Un giudizio spassionato sullo show sanremese di Benigni

di Natale Zappalà

Risulta molto arduo, in Italia, provare a contestare tutto ciò che è nazional-popolare, se non altro perché, in questi casi, viene immediatamente applicato il cosiddetto “principio dell'auctoritas”, ossia l'impossibilità di criticare una supposta autorità, la quale, in virtù del proprio curriculum o semplicemente per la convenienza del momento, viene elevata dal pubblico al rango di infallibile. Ci si scorda facilmente, ahinoi, della naturale ed inalienabile imperfezione che contraddistingue ogni essere umano!
Lo show di Roberto Benigni a Sanremo rientra in questa casistica. L'esegesi dell'inno di Mameli e l'annessa lezione di Storia moderna tenute dal comico toscano hanno immediatamente infiammato l'opinione pubblica italiana.
In realtà, il premio Oscar – che rimane, a parere di chi scrive, un artista di straordinario talento –, nell'improvvisarsi storico ed esegeta, ha proferito svariate inesattezze, macchiando alcune condivisibili affermazioni sull'italianità con quelle irreali forme di esaltazione retorica e nazionalista tipiche del libro Cuore o di altri capisaldi del canone risorgimentale, quella sterminata produzione letteraria – dal Marzo 1821 all'Ettore Fieramosca che servì, a livello didattico, a forgiare le coscienze dei nuovi italiani, i quali, come disse D'Azeglio, nacquero dopo l'Italia stessa (“Fatta l'Italia, bisogna fare gli Italiani”).
Si può ben comprendere quanto i richiami ai patrioti o a determinate imprese eroiche, se accompagnati a continui ed auspicabili appelli al risveglio o al riscatto, costituiscano degli argomenti stimolanti per il pubblico italiano che, a conferma della propria congenita incoerenza, sovente si riscopre tale soltanto durante le feste comandate, siano esse i Mondiali di Calcio o il Festival di Sanremo; d'altro canto, la routine è piena zeppa di episodi intrisi del più becero campanilismo fra cittadini di diversi quartieri, città, provincie e regioni.
Così facendo, si rischia di perdere il contatto con la realtà. In primis perché non è assolutamente vero che la costruzione dell'Unità ebbe per protagoniste le masse popolari. Si trattò essenzialmente di un processo guidato da gruppi elitari svincolati dalle masse popolari – repubblicani mazziniani e federalisti, neoguelfi, o monarchici – che si concluse con la vittoria della tesi cavouriana: la creazione di uno stato unitario sotto l'egida della dinastia Savoia, inizialmente orientata all'esclusiva espansione dei possedimenti sabaudi nella pianura padana.
Né tantomeno il concetto di koiné culturale invocato da Benigni in riferimento al filone linguistico e letterario che da Dante, Petrarca e Boccaccio sino ad Alfieri e Manzoni, si riconosceva nella comunanza dell'italiano, risulta in grado di reggere il confronto con la realtà storica. L'italiano, o meglio “gli italiani” – il mistilinguismo dantesco della Commedia è molto diverso dal fiorentino colto di Petrarca o da quello “vivo” di Machiavelli –, impiegati da questi illustri scrittori, rimasero dei modelli esclusivamente letterari e sconosciuti al volgo almeno sino all'avvento degli unici strumenti di diffusione capillare della lingua in questione: radio, cinema, televisione e quotidiani, i mezzi di comunicazione di massa nati nel XX secolo. Prima di allora, solo chi possedeva un determinato tipo di formazione – intellettuali, chierici, nobili ed uomini di legge – sapevano padroneggiare una lingua che qualcuno scriveva, ma quasi nessuno parlava. Facendo un paragone non troppo azzardato, scrivere in italiano, ancora nell'Ottocento, quando Manzoni “risciacquava in Arno” la troppo “lombarda” prima stesura dei Promessi Sposi, equivaleva a compiere un'operazione artificiale, come se un Reggino del Terzo Millennio scrivesse in grecanico.
I moderni concetti di “nazione” o “patria” – intesi come convergenza di lingua, cultura o etnia, all'interno di uno spazio geografico coerente – furono coniati solo dopo la Rivoluzione Francese. Si compie un anacronismo bello e buono quando si tenta di rintracciare un'identità nazionale italiana prima di questa data. Se qualcuno avesse chiesto a Dante informazioni circa la sua patria, il sommo poeta avrebbe certamente indicato Firenze. La “nazione” o la “patria” erano infatti il luogo di nascita, natio quia nata.
Non si possono, in Storia, esportare categorie concettuali contemporanee nel passato, altrimenti si rischia di fare le figure barbine che fecero gli studiosi tedeschi e francesi di fine XIX sec., che tentavano di dimostrare le presunte origini francesi piuttosto che tedesche di Carlo Magno; il quale, non avendo la minima idea, nel VIII-IX sec., di cosa fossero la Francia o la Germania in qualità di moderni stati-nazionali, si sarebbe fatto una sonora risata di fronte a tali, angosciosi, interrogativi.
Il discorso di Benigni, in definitiva, è stato scientificamente approssimativo, con buona pace di tutti coloro che ne hanno tessuto le lodi dal punto di vista storiografico. Non c'è dubbio che il comico toscano abbia errato “per troppo amore” – come pure qualcuno fra i suoi sparuti critici ha sostenuto –, ma il “troppo amore” non fa bene alla necessità, da parte del pubblico italiano, di acquisire la reale consapevolezza delle proprie radici. Le quali, come ragionevolmente ha recitato uno spot RAI andato in onda nelle scorse settimane, sono molteplici e vanno rigorosamente, nonché singolarmente, valorizzate.
L'Italia è oggi una, ma è nata da molteplici identità culturali locali – di “poligenesi” parlerebbero i cattedratici – ed ognuna di esse può essere degnamente divulgata semplicemente e metodologicamente documentandosi. L'incontro fra queste diversità non è stato, non lo è, e probabilmente non lo sarà mai, indolore. Dovrebbe essere questo il corretto approccio al 150° anniversario dell'Unità. Bisogna, in altri termini, alternare la cronaca alla favola, il trombone alla sviolinata, la tragedia all'idillio. Le coscienze si costruiscono al riparo dalla retorica e dalle strumentalizzazioni di sorta, leghiste, borboniche, iper-nazionaliste che siano. E questo vale anche per Benigni, certamente più attendibile quando commenta la Divina Commedia.

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