di Natale Zappalà
“Io sono io, e voi non siete un cavolo (nel film di Monicelli, la parola utilizzata era un'altra...)”. Con questa colorita espressione il Marchese del Grillo, magistralmente interpretato da Alberto Sordi, riassumeva il famigerato principio dell'auctoritas, ossia quella consuetudine basata sul non mettere mai in discussione ciò che viene detto o scritto da personaggi che, in un modo o nell'altro, hanno raggiunto dei posti di vertice in seno alla società.
Un principio assolutamente inconciliabile con l'autentico metodo scientifico, le cui fondamenta poggiano sul relativismo gnoseologico: non esistono verità assolute ed universalmente valide e pertanto, gli uomini, procedendo per dimostrazioni e confutazioni perennemente legittimate dall'utilizzo del metodo scientifico, possono approdare a verità perfettibili, ma mai oggettive. Si ritiene valida, per esempio, la teoria eliocentrica – il Sole immobile al centro del suo sistema di pianeti, con questi ultimi attratti dalla sua massa superiore, la Terra che descrive orbite ellittiche ecc. ecc. – solo perché, al momento, non sono stati elaborati dei teoremi in grado di dimostrare formulazioni diverse.
Se le cose andassero normalmente così, non ci sarebbe nulla di rivoluzionario. Eppure, la scienza è fatta dagli uomini, naturalmente ed inevitabilmente imperfetti; uomini che sbagliano, uomini boriosi e potenti, i quali rivendicano spesso pretese di infallibilità, finendo per assomigliare molto ai religiosi che poi pretendono di combattere, procedendo cioè per rivelazioni apodittiche (cioè verità ritenute valide sulla parola, in altri termini per fede). Molti, pur di non ammettere i propri errori di valutazione, ricorrono alla censura del libero pensiero altrui, comportandosi da inquisitori anziché da scienziati.
Esempi e modelli deleteri per i ragazzi, allevati in tal modo ad ignorare, specie nel corso del loro processo di formazione scolastica, gli strumenti critici necessari per mettere in discussione il cieco dogmatismo, l'unico e vero presupposto da realizzare per tutti coloro che aspirano al controllo della società. Del resto, i detentori di qualsiasi forma di potere operano sulla base di una massima fondamentale per l'esercizio dell'autorità: è più facile abbindolare chi crede, non chi conosce.
Quando un uomo dice o scrive qualcosa, a meno che non venga dimostrato scientificamente il concetto di ispirazione divina, può incorrere nell'errore. Non importa se egli sia pontefice massimo, Accademico dei Lincei o ministro della repubblica. Il principio dell'auctoritas è un'idea terrena, relativa, soggetta al volgere del tempo; certo, una persona preparata nel suo mestiere raramente sbaglia, ma il rischio di errare è inevitabile quanto umano.
Riportiamo un esempio utile ad esemplificare le gravi colpe proprie dell'ignoranza umana: sino al XIX secolo, gli storici evitavano di studiare la storia arcaica di Roma, semplicemente perché si riteneva che Tito Livio (autore dell'Ab Urbe condita) avesse già scritto tutto sull'argomento. “Livio che non erra”, diceva Dante, quindi nessuno si azzardava a mettere in discussione l'auctoritas. Poi, qualcuno si accorse che Tito Livio, di cantonate, ne prendeva anch'egli, per negligenza propria o per questioni di strumentalizzazione politica, e si cominciò effettivamente a dubitare circa la veridicità dei sette re di Roma.
Certo, confutare non è un affare facile: occorrono ricerche metodiche, verifiche, dimostrazioni esaurienti. Ma nessun uomo è infallibile, né quando parla ex cathedra, né se scrive libri o fa il docente universitario.
Dubitare coscienziosamente è lecito come respirare. “Cogito, ergo sum”, diceva Cartesio; e, questa volta, non sbagliava affatto.
Pubblicato su www.costaviolaonline.it
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