Lo scopo della scuola non è soltanto quello di munire i giovani di tutti gli strumenti necessari per accedere nella società come cittadini maturi (cioè i saperi, le scienze, le arti, le tecniche, i metodi, la disciplina). Consiste, anche, nel risvegliare, curare o stimolare in ogni giovane la coscienza della propria unicità e della urgenza di ogni unicità per migliorare la qualità della vita della nostra società ed estenderla a più persone rispetto ai pochi che ne godono attualmente. La scuola dovrebbe rendere consapevole ogni giovane di quanto è straordinario il proprio potenziale, di quanto può essere incisivo per la collettività, di quali e quante responsabilità derivano dallo specifico contributo di ognuno e di quanto tutta la comunità dipenda dal singolare apporto di ognuno, dal momento che siamo tutti interconnessi, dipendenti l’uno dall’altro, bisognosi l’uno dell’altro, indipendentemente dalla faccia, dal colore, dall’abito, dal lavoro, dal gusto, dalla fede e dalle opinioni che ognuno possiede. Mediante i giovani, la scuola dovrebbe prendere in mano il destino dell’umanità e proiettarlo scrupolosamente verso un futuro più vantaggioso, se non per tutti, per la maggior parte, in ogni dimensione che caratterizza la società umana e ne qualifica l’esistenza. Ma la scuola non fa nulla di ciò.
Leggendo l’articolo “Scuola ci manchi, sarebbe stato bello conoscerti!” di Stefania Guglielmo ( http://agoghe.blogspot.com/2010/09/scuola-ci-manchi-sarebbe-stato-bello.html ), sono tornato indietro nel tempo, al momento in cui concludevo la mia esperienza scolastica e già cominciavo a effettuarne un bilancio. Sembra che il tempo si sia fermato: a distanza di oltre dieci anni, la scuola pare sia rimasta uguale.
Animati dall’immenso desiderio di apprendere tutto quello che li attornia e di acquisire le conoscenze e le competenze utili per canalizzare le proprie energie allo scopo di edificare un futuro migliore, i giovani cominciano l’esperienza scolastica come degli innamorati per finirla, chi prima chi dopo, molto demoralizzati. Col passare del tempo, i giovani si ritrovano privi del coraggio, della fiducia in se stessi, dell’energia, della volontà, dell’amore per la conoscenza, delle proprie potenzialità e della speranza di contribuire a un miglioramento della società. L’artefice di questo totale svuotamento dell’identità di ogni alunno, è la programmatica indifferenza del corpo insegnante. Limitandosi a mandare avanti il programma, come se ci si trovasse in un ufficio nel quale è necessario lavorare “come da programma” per produrre quattrini, l’insegnante assiste indifferente alla lenta e inesorabile implosione di ogni proprio alunno. L’insegnante non vuole far da guida alle domande esistenziali e fondamentali dei giovani, domande così importanti per la loro formazione personale, civile, sociale, umana. Domande poste nel momento più fragile, insicuro, inesperto, inquieto della vita di un giovane. Queste domande, e i giovani con esse, si perdono senza risposta nel silenzio dell’insegnante.
Per effetto di questo silenzio, ogni giovane perde se stesso, smarrisce il proprio io, la propria felice voglia di essere così com’è, di crescere, di imparare, di migliorarsi, di mettere tutto se stesso al servizio dell’altro. Si perde nel labirinto scolastico del sapere, specchio di una società avvizzita, e si lascia sfuggire la propria diversità, sulla base della quale si fonda la propria unicità. A causa della quiete funzionale per il completamento del programma, il giovane ormai privo della propria singolare identità, diventa un numero che rinvia contemporaneamente a una figura smorta seduta nell’aula e a un nome senza volto che occupa quel posto preciso della sequenza di numeri che compongono il registro. Il giovane non è nessuno: ognuno è uguale a tutti quelli che sono stati, che sono e che saranno in quelle quattro mura (la scuola) e su quei fogli di carta (il registro), che stabiliscono il destino dei giovani, della società, dell’avvenire. In questo indifferente movimento eternamente ritornante di omologazione e di spersonalizzazione, il giovane diviene uno studente, uno scolaro, un discente, un alunno, un allievo. In altre parole, un mezzo per muovere i tentacoli del sistema economico-scolastico e per produrre/far guadagnare quattrini. Il resto non serve.
La macchina dello studio (il giovane) intraprende e mantiene costante con il mondo della conoscenza una relazione di devozione a-critica dei manuali, un rapporto tra un numero (il giovane) e precisi numeri di pagine per ottenere dall’insegnante un parere numerato e dai genitori una risposta numerata in moneta; una relazione tra un mezzo (il giovane) e un altro mezzo per sfornare altri mezzi (i soldi) con i quali l’insegnante può limitarsi a campare, comprando gli altri mezzi utili a tal fine (i beni alimentari, farmaceutici ecc.); un rapporto tra visi sbiaditi, date, calcoli e segni per produrre altri visi scoloriti, altre date, altri calcoli, altri segni. Il giovane vive tra le carceri del mondo della conoscenza sotto la tirannia del prof-centrismo, allo scopo di diventare prof-centrico: questa metamorfosi avviene nelle interrogazioni. Scorrendo la lista numerata, l’insegnante chiama una ad una le macchine dello studio come per avvertirle della propria udienza, dalla quale dipende la condanna o l’innocenza di ognuno. L’esito del processo, perché questo sembra ogni interrogazione, dipende dalla capacità di apprendimento della lezione spiegata dall’insegnante: chi ripete a memoria, per filo e per segno, le parole dell’insegnante, è salvo; chi no, corre il pericolo della bocciatura (e non della s-bocciatura). Lo scopo dell’interrogazione, questo è il prof-centrismo, è rendere soddisfatto di sé medesimo l’insegnante: si tratta di mostrarsi una sua copia perfetta e di cominciare a provare piacere di questo, lo stesso piacere che prova l’insegnante dall’altra parte della cattedra, nel vedere il proprio alter ego.
Con questo diabolico meccanismo ogni giovane perde se stesso, i valori, i sogni e i punti di riferimento necessari per generare una trasformazione della società, realizzabile facendo leva sull’elemento che in primis costituisce la società stessa e del quale ogni giovane si sente parte integrante: l’umanità. Se la scuola non cambia, se non recupera un volto umano, non c’è da stupirsi se poi i giovani, copie perfette degli adulti, si comportano allo stesso modo degli adulti: vivono cioè aggrappandosi alla logica della raccomandazione, del clientelismo, della manipolazione di ogni sfera della società e della vita per sopravvivere tristemente.
La scuola ha perso la propria essenza: è questo che Guglielmo denuncia con il proprio articolo. Chi non ha capito l’articolo, legga prima la frase “La scuola, uno di quei luoghi fondanti dove si diventa individui, oggi rende muti tutti gli urlanti” e poi rilegga l’articolo per intero. Questa frase vuol dire che la scuola, agli occhi di Guglielmo, dovrebbe essere quel luogo dove si inizia a gettare le basi per diventare se stessi. L’individuo è “chi non può essere diviso”, chi è in piena armonia con se stesso. Oggi, invece, chi urla la propria individualità – urla perché patisce la società nella quale vive e nessuno lo ascolta – chi urla la propria unicità viene azzittito e questo accade principalmente a scuola. Questo, cari lettori, deve far riflettere parecchio. L’articolo di Stefania Guglielmo evidenzia la necessità di interrogarsi sullo stato attuale della scuola, sul suo senso e sul suo destino. Questa indagine non riguarda l’ente scuola nel suo aspetto amministrativo-strutturale-funzionale bensì nel suo volto educativo-formativo. I giovani hanno un volto? Hanno un’identità? Hanno potenzialità uniche delle quali la società necessita? Se sì, come educarli? Come aiutare ogni singolo giovane a “comunicare” il proprio potenziale? Come guidare un giovane a essere se stesso?
Se le parole dell’intera enciclopedia dei saperi, delle scienze, delle arti e delle tecniche umani non danno da pensare, fanno pensare, invece, le parole di una studentessa, il “bocciolo” scrittore dell’articolo in questione: “La scuola per un giovane è come il sole per un tenero bocciolo; se c’è buio, esso emana, al pari di ogni pianta, i suoi effetti peggiori”. Il buio scolastico, dunque, non piace a tutti: c’è qualcuno che desidera ancora la luce. Qualcuno può cominciare ad accenderla?
di Salvatore Bellantone.
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