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giovedì 9 dicembre 2010

CEI o CI FAI?

di Natale Zappalà

Roma, 2 dic. (Apcom) - La Conferenza episcopale italiana promuove l'insegnamento della religione cattolica (Irc) con un messaggio nel quale, in vista del prossimo anno scolastico, si rivolge alle famiglie che scelgono l'ora di religione per "incoraggiare positivamente quanti non l'hanno ancora scelta, affinché scoprano la ricchezza della dimensione religiosa della vita umana e la sua valenza educativa". "Nell'anno scolastico 2009-2010 l'insegnamento della religione cattolica è stato scelto dal 90% delle famiglie e degli alunni delle scuole statali. Tale dato sale al 90,80%, se si tiene conto anche di quanti frequentano scuole cattoliche", scrive la presidenza Cei nel messaggio. "L'alto tasso di adesione attesta la forza di attrazione di questa disciplina, di cui gli stessi avvalentisi sono i testimoni più efficaci. Proprio a questi studenti e alle loro famiglie chiediamo di incoraggiare positivamente quanti non l'hanno ancora scelta, affinché scoprano la ricchezza della dimensione religiosa della vita umana e la sua valenza educativa, finalizzata al pieno sviluppo della persona".

Si parta dal presupposto che la scuola italiana deve sempre e comunque garantire il rispetto della diversità che spetta agli studenti di diversa appartenenza confessionale, facilitandone l'integrazione all'interno di uno stato laico de jure. Ne consegue che l'invito del Card. Bagnasco – pur ossequioso del libero arbitrio, dal momento che se gli studenti cattolici scegliessero di persuadere tutti coloro che hanno scelto di non avvalersi dell'ora di religione (cattolica), questi ultimi rimarrebbero comunque nel diritto di rifiutare cortesemente – risulta inaccettabile.
Se alla CEI sta così a cuore “la scoperta della ricchezza della dimensione religiosa della vita umana e della sua valenza educativa”, allora si diano da fare per ridefinire i rapporti fra Stato e Santa Sede previsti dall'ormai anacronistico Nuovo Concordato del 1984, in modo da sostituire l'insegnamento esclusivo e monocratico della confessione cattolica con quello della storia delle religioni.
Difatti, l'unico modo per dotare i giovanissimi di una provvida apertura mentale nei confronti del “sacro”, orientando per davvero le loro menti alla comprensione di realtà ed atteggiamenti del genere senza mai interferire con l'inalienabilità delle convinzioni del singolo individuo, coincide con l'introduzione dell'indagine storico-comparativa dei fenomeni religiosi nei programmi didattici. Solo così i ragazzi, seguiti da docenti specializzati e possibilmente non selezionati dalle diocesi, potranno realmente arricchirsi culturalmente sull'argomento, imparando dalla diversità, dall''incessante ed imperturbabile cambiamento che caratterizza le cose umane. Analizzare criticamente la genesi, la tipologia, le peculiarità del fondatore, lo sviluppo e l'incidenza evenemenziale di ogni confessione costituisce una metodologia ottimale al fine di prevenire intolleranze, fondamentalismi e fanatismi in una società multiculturale come quella del XXI secolo.
Altimenti i vertici della CEI facciano più attenzione quando scelgono certi termini: “la valenza educativa della religione” è un concetto che non attiene al solo cattolicesimo, ma alle religioni nel loro complesso, e cioè ad una serie di aspetti riconducibili a mentalità e comportamenti che si collocano prima ed al di là della sfera umana (prius et supra, secondo la terminologia storico-religiosa), sia individualmente, sia come espressione di un dato gruppo umano. Se poi si parlasse di “valenza educativa del cattolicesimo”, allora il discorso è un altro e il Card. Bagnasco avrebbe sicuramente ragione nel far propaganda alla confessione a cui appartiene. Certo, si tratterebbe sempre di una forma larvata di ingerenza all'interno di uno stato laico sovrano – dove la religione del singolo dovrebbe interessare le istituzioni solo quando si rischia di mettere in discussione l'ordine pubblico – ma ormai ci abbiamo fatto l'abitudine.

domenica 31 ottobre 2010

"Il nostro caro angelo": un inno alla libertà religiosa

a cura di Natale Zappalà


La fossa del leone
è ancora realtà
uscirne è impossibile per noi
è uno slogan falsità
Il nostro caro angelo
si ciba di radici e poi
lui dorme nei cespugli sotto gli alberi
ma schiavo non sarà mai
Gli specchi per le allodole
inutilmente a terra balenano ormai
come prostitute che nella notte vendono
un gaio un cesto d'amore che amor non è mai
Paura e alienazione
e non quello che dici tu
le rughe han troppi secoli oramai
truccarle non si può più
il nostro caro angelo
è giovane lo sai
le reti il volo aperto gli precludono
ma non rinuncia mai
cattedrali oscurano
le bianche ali bianche non sembran più
Ma le nostre aspirazioni il buio filtrano
traccianti luminose gli additano il blu

Il nostro caro angelo”, titolo del brano e dell'album del 1973, costituisce probabilmente uno dei pezzi più sofisticati, testualmente e musicalmente, del duo Mogol-Battisti.
L'apparente ermeticità del testo viene spiegata dallo stesso paroliere nel corso di un'intervista rilasciata a Claudio Bernieri (1978):

<< Il nostro caro angelo è un discorso contro la Chiesa! L'hai sentita? Il nostro caro angelo è l'ideale. Effettivamente è un testo un po' difficile, però è autentico. Guarda che è semplicissimo, te lo posso spiegare in tre parole: voglio dire che l'ideale dell'uomo è distrutto man mano che si vive, perché è chiaro che chi vive con le ali viene ferito. Allora si mettono i remi in barca e si comincia a fare il discorso del compromesso; qui c'è proprio il tentativo di difendere questo ideale, le ali bianche non servono più. L'uomo condannato da questa Chiesa, visto come un peccatore, oscura sempre di più: è un discorso contro la Chiesa fatto con mezzo milione di copie, è un discorso sociale, assolutamente>>.

Alla luce della spiegazione di Mogol, l'ascolto de Il nostro caro angelo acquista molto più significato e fascino, la lettura del testo si arrichisce di nuove riflessioni.
Notiamo come, specie nei versi finali (le reti il volo aperto gli precludono/ma non rinuncia mai/ cattedrali oscurano/ le bianche ali bianche non sembran più/ ma le nostre aspirazioni il buio filtrano/traccianti luminose gli additano il blu) venga impiegato il consueto linguaggio salvifico, espresso attravarso l'opposizione di luce ed ombra, adoperato durante i sermoni, ma con una prospettiva, se così può definirsi, “rovesciata”. Naturalmente si tratta di un'interpretazione soggettiva, per amore di scientificità precisiamo che non è assolutamente detto che quelle che seguono equivalgano alle reali intenzioni scrittorie dell'autore.
L'ideale dell'essere umano, allegoria della LUCE mogoliana, una libertà etica coerente e consapevole, viene OSCURATA dal BUIO delle CATTEDRALI, dalle RUGHE vecchie di TROPPI SECOLI, dal dogmatismo e dal ritualismo prettamente ecclesiastico.
Eppure, le NOSTRE ASPIRAZIONI rimangono talvolta in grado di FILTRARE IL BUIO, di emergere al di là della cortina incancrenita delle costrizioni religiose.
Sono i sentieri svavillanti di verità, le TRACCIANTI LUMINOSE, ad indicare (ADDITARE) il cammino da seguire per arrivare al BLU, metafora della felicità, il cui corrispondente semantico nell'accezione cristiana è il concetto di beatitudine.
Lasciamo ora spazio a questo splendido pezzo, in una versione sperimentale dal vivo.

La "Preghiera a Dio" di Voltaire

L'attualità del Trattato sulla Tolleranza di Voltaire (1763) risulta disarmante, persino in questi tempi di oscurantismo e barbarie che hanno assunto le forme seducenti della modernità e della tecnocrazia.
La Preghiera a Dio costituisce probabilmente il punto più alto del deismo filosofico settecentesco, nonché un testo programmatico sulla valenza etica della tolleranza religiosa difficilmente confutabile, con buona pace delle teologie passate, presenti e future.
La dedichiamo ai giovani ed alla speranza di un futuro diverso.
(N.Z.)

Non è più dunque agli uomini che mi rivolgo; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti i tempi:se è lecito che delle deboli creature, perse nell'immensità e impercettibili al resto dell'universo, osino domandare qualche cosa a te, che tutto hai donato,a te, i cui decreti sono e immutabili e eterni, degnati di guardare con misericordia gli errori che derivano dalla nostra natura.Fa' sì che questi errori non generino la nostra sventura.Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l'un l'altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda;
fa' che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera. Fa' sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi,tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole,tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate,tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te,insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati "uomini" non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione.Fa' in modo che coloro che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole;che coloro che coprono i loro abiti di una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un mantello di lana nera;che sia uguale adorarti in un gergo nato da una lingua morta o in uno più nuovo.Fa' che coloro il cui abito è tinto in rosso o in violetto, che dominano su una piccola parte di un piccolo mucchio di fango di questo mondo,e che posseggono qualche frammento arrotondato di un certo metallo, gioiscano senza inorgoglirsi di ciò che essi chiamano "grandezza" e "ricchezza",e che gli altri li guardino senza invidia: perché tu sai che in queste cose vane non c'è nulla da invidiare, niente di cui inorgoglirsi.Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli!Abbiano in orrore la tirannia esercitata sulle anime,come odiano il brigantaggio che strappa con la forza il frutto del lavoro e dell'attività pacifica!Se sono inevitabili i flagelli della guerra, non odiamoci, non laceriamoci gli uni con gli altri nei periodi di pace,ed impieghiamo il breve istante della nostra esistenza per benedire insieme in mille lingue diverse,dal Siam alla California, la tua bontà che ci ha donato questo istante.

martedì 19 ottobre 2010

Il caso-Scazzi e lo sciacallaggio mediatico

di Natale Zappalà

Il caso di Avetrana: un dramma disumano del quale è doveroso informare il pubblico. Che l'efferato omicidio della piccola Sara Scazzi debba costituire un incentivo ulteriore per tutte le numerose vittime di molestie ed abusi sessuali al fine di denunciare i colpevoli, risulta altrettanto lapalissiano. L'omertà, i tabù e le reticenze con le quali vengono sovente affrontati ed occultati i reati a sfondo sessuale rimangono i nemici da combattere, al pari dei carnefici che si macchiano di tali atrocità.
Tuttavia, confondere il diritto di cronaca, libertario ed inalienabile, con un grottesco voyeurismo dettato dalla possibilità di monitorare 24 ore su 24 l'abitazione-scenario del delitto con tanto di di comunicazione-live via sms o in forma epistolare con i parenti delle vittime o degli indagati, rappresenta davvero un qualcosa di barbaro e grottesco.
Del resto, quanto, in determinate condizioni, il diritto all'informazione possa degenerare in psicosi di massa, risulta evidenziato da quel gruppo di idioti che nei giorni scorsi si sono recati ad Avetrana a stazionare davanti casa Misseri – una dimora ancora abitata e quindi soggetta alla tutela della privacy – in una sorta di “gita turistica dell'orrore”. Questo è il vero orrore di una società avvinta al dominio della telecamera, convinta che tutto ciò che viene ripreso sia reale, il paradosso del Grande Fratello.
Il caso-Scazzi si è consumato, sin dai suoi primordi, sullo sfondo del tasto REC delle cineprese, si è definito attraverso vari fenomeni di sciacallaggio mediatico quali l'obbrobriosa condotta tenuta dalle redazioni dei più noti programmi televisivi di approfondimento giornalistico. Corrispondenti che piantonano giorno e notte Avetrana, messa in onda di video od immagini rubate violanti l'intimità di un'adolescente trucidata, zuffe clamorose per mendicare una ripresa o una battuta ogni qual volta uno dei personaggi del dramma si accinge ad uscire di casa. Il tutto viene giustificato dal diritto di cronaca e dall'avidità di nuovi aggiornamenti pretesi dall'opinione pubblica italiana.
Sorgono spontanei, dunque, alcuni quesiti: può la televisione competere con la magistratura, le forze di polizia e gli inquirenti nel corso delle indagini? Se sì, la mancanza di coordinamento fra i media e le autorità investigative non rischia di alterare le indagini stesse? L'attrazione maniacale che il caso-Scazzi continua ad esercitare sui telespettatori in che misura dipende dall'instancabile voglia di apparire davanti alle telecamere da parte di Sabrina Misseri, attualmente indagata per concorso nell'omicidio della cugina, e dalle precedenti apparizioni di altri familiari di Sara (la madre, il padre ed il fratello, oltre alle pietose interviste rilasciate dallo stesso Michele Misseri) nelle scorse settimane?
Nell'impossibilità di rispondere esaurientemente ai suddetti interrogativi, riportiamo alcune riflessioni, corredate da qualche dato.
I giornalisti devono, per diritto e dovere, INFORMARE, non INVESTIGARE quando esistono delle indagini parallele da parte delle autorità competenti. Quando l'inviata riceve in diretta il messaggino da parte dei parenti della vittima rischia soprattutto di alterare o complicare il lavoro degli inquirenti. Questi ultimi rimangono, per legge e per etica professionale, gli unici investigatori del caso, sebbene il grande pubblico di guardoni spaparanzati in poltrona pretende di risolvere l'enigma, giocando a fare gli ispettori Clouseau della situazione.
Una persona che molesta o abusa di un minore rimane un mostro da denunciare, così come resta doverosa la necessità di affrontare senza remore, in famiglia, a scuola ed in tutti i centri di aggregazione, il problema, al fine di prevenirlo. Ma di qui ad accostarsi maniacalmente agli scenari, alle vittime ed agli esecutori di una tragedia che dovrebbe far RIFLETTERE piuttosto che OSSERVARE è una condizione esplicante una sola realtà: il pubblico italiano è compulsivamente ossessionato dal caso-Scazzi.
Ammettiamo che i milioni di telespettatori del dramma non avessero manifestato il minimo interesse dinanzi a questa vicenda; ci sarebbero state le dirette, i video, gli approfondimenti, le dispute di psicologia criminale degli ultimi giorni?
Nell'ultimo anno si sono verificati oltre un centinaio di omicidi commessi da un parente stretto su di una vittima di sesso femminile: nessuno di questi è stato documentato in maniera così massiccia dal sistema mediatico. Questo è il dato su cui riflettere al di là della demagogia sbandierata da certa stampa. Il caso-Scazzi non risponde forse alle consuete logiche di strumentalizzazione di episodi di cronaca per fare odiens, soldi, pubblicità e titoli-bomba? Non è ancora una volta un mero servizio reso al consumatore-medio?
In fondo, l'unica priorità rimane quella di fare giustizia di fronte ad una morte efferata, allo spegnimento di una giovane vita. Un team di esperti lavora giorno e notte per risolvere il caso. Un giornalista serio può informare il pubblico in merito agli sviluppi sulla vicenda semplicemente aggiornandolo sui dati ufficiali emersi dalla procura di Taranto nel corso delle indagini.
Tutto ciò non avverrà in queste forme ragionevoli solo perché la maggioranza degli italiani mantiene un rapporto voyeuristico con la tragedia. Così, una triste realtà viene ancora una volta piegata all'interesse ed allo sciacallaggio, viene sottratta all'esercizio sistematico del criticismo; Sara continua ad essere uccisa dieci, cento, mille volte.

lunedì 18 ottobre 2010

La memoria storica.


di Pasqualino Placanica

L’associazione di idee Minatori Cileni/ Grande Fratello, per quanto “blasfema”, apre a considerazioni di vario tipo tra cui quella senz’altro valida esternata dall’amico Laurendi nel post “quando l’informazione è peggio dell’ignoranza” che condivido perfettamente. Io però vorrei trattare un altro aspetto  della vicenda. Quello che riguarda la memoria storica. Cosa c’entri la memoria storica con il Grande Fratello è presto detto: immaginiamo che la vicenda dei Minatori Cileni si svolga 20 anni fa, e si concluda con il medesimo felice risultato, con le medesime scene di festeggiamenti diffuse via etere sul tutto il pianeta. Naturalmente nessuno potrebbe fare paragoni con il reality show, semplicemente perché ancora il concetto stesso non esiste. Dieci anni dopo, la prima edizione del Grande Fratello. Evento di primo piano, non si parla d’altro negli ambienti dello spettacolo; all’uscita dalla casa del vincitore, scene  simili a quelle della miniera ma…nessuno si sognerebbe di fare paragoni con il salvataggio dei Minatori di dieci anni prima! È il rapporto Minatori-Grande Fratello che fa notizia, non il contrario, e questo perché la massa tende a tenere presente ed a valorizzare le cose frivole, il gossip, le stupidaggini. La storia, quella vera, quella degli avvenimenti che hanno cambiato il mondo (in bene o in male) non interessa alla moltitudine, rimane materia  per pochi. Pertanto l’episodio dei Minatori Cileni, qualora fosse avvenuto nell’ordine temporale che ho ipotizzato prima, sarebbe stato presto archiviato. Cosa che invece non è purtroppo per i reality show che, vuoi perché riproposti sotto varie salse, vuoi perché grazie ai media ed agli interessi che vi girano intorno esaltati continuamente, arrivano ad essere paragonati (come dicevamo) ad eventi che in quanto a serietà ed importanza reale sono ad anni luce di distanza.  D’altronde è una costante che si ripete da millenni: se l’uomo facesse tesoro delle esperienze passate non ripeterebbe gli stessi errori; in realtà non è che le ignori, semplicemente le dimentica. Con la differenza che i nostri antenati non avevano la tecnologia, non avevano la possibilità di attingere ad archivi immensi come quelli del web. Noi non abbiamo giustificazioni, solo la pigrizia e l’apatia che sembrano avvolgere le nuove generazioni.

sabato 16 ottobre 2010

Quando l'informazione è peggio dell'ignoranza



di Vincenzo Laurendi

Abbiamo seguito un po' tutti, con apprensione e partecipazione, la terribile avventura di 33 minatori in Cile. Quasi 70 giorni fa questi poveretti sono rimasti intrappolati a 700 metri di profondita' nella miniera di Copiago,  e sarebberero dovuti uscire a Natale, ma per fortuna, son riusciti ad estrarli con un mese e mezzo di anticipo. Tutto bello, bellissimo, un miliardo di persone ha seguito il salvataggio in diretta il Cile è in festa. Eppure, c’è chi è stato capace di ridurre questa notizia a qualcosa di puramente ridicolo. Infatti il tg5 ha mandato in onda il servizio sul recupero dei minatori paragonandoli all’uscita dei concorrenti del Grande Fratello, un bellissimo “ritorno alla vita”. Cito le abominevoli parole del servizio: “capita di assistere ad un evento toccante ed inedito come la liberazione dei minatori cileni ed avere la strana sensazione di averlo già visto. È l’uscita di Mario Sepùlveda, il secondo dei minatori a sbucare dalla capsula, ad avere qualcosa di familiare. Urla, risate, abbracci. È la gioia del ritorno alla vita. E però, quall’uscita spettacolare riporta alla mente quella, certo molto meno drammatica, e volontaria di quella dei concorrenti del Grande Fratello. A colpo d’occhio, le sequenze sono identiche. Ed in un certo senso, è identico lo stato d’animo di chi esce dalla cattività, che sia in miniera o in un reality, è l’urlo dell’uomo che si riappropria della vita. E che la assapora, come mai prima. Quando nacque, dieci anni fa, il GF era proprio questo, un grande esperimento sociologico, prima ancora che mediatico, per vedere come reagiscono, prigionieri per circa tre mesi, uomini e donne spiati giorno e notte con le telecamere. Ma ancora una volta, la realtà ha superato la fantasia, perché tutta la vicenda dei 33 minatori assomigliava ad un reality. Li abbiamo spiati mentre parlavano attraverso il video con le loro famiglie, quasi fossero in un confessionale, e li osserviamo curiosi per una volta che il dramma volge in favola bella. Un grande reality con un premio che più grande non si può, e tutti vincitori. ” Da questo servizio emerge un solo, grande perdente: il giornalismo vero, seguito dall’umana dignità. Non si possono paragonare 33 uomini che si spaccano le mani e la schiena a lavorare in miniera, che portano a casa quei quattro soldi giusti giusti (e a volte nemmeno) per sfamare le proprie famiglie, con degli emeriti cretini che si rinchiudono volontariamente (come ribadito anche dal servizio) in un bunker a non fare nulla se non allenarsi in spericolate coreografie con il tema di Ufo Robot o in test (sempre falliti) di grammatica o di cultura generale. Non si possono paragonare persone che vengono “spiate” per osservare il loro stato di salute a gentaglia che viene spiata volontariamente. Nessuno ha chiesto ai concorrenti del GF di entrare nel bunker e chiudersi tre mesi, mentre c’è chi lo deve fare per necessità, e per giunta, rischiando la vita. Eppure, mentre gli scavatori non hanno che miserrimo premio, i cretini vengono coperti d’oro, migliaia di euro, fama, notorietà e servizi sui giornali per…niente. Assolutamente nulla. Il vuoto totale. Ci sono testate giornalistiche che mentono sapendo di mentire, come quando parlano di “assoluzioni” mentre in realtà si tratta di “caduta in prescrizione”, concetti quasi diametralmente opposti, oppure, quando negano l’esistenza di alcune notizie, o storpiano i nomi di coloro che attaccano (giustamente) coloro che poi sono i padroni del redattore del tg, o peggio ancora, costruiscono telegiornali di mezz’ora strutturati in questo modo: 3 minuti a raffica di tragedie, sparatine, ammazzamenti, estorsioni, attentati, cadute di Wall Street e subito dopo, 27 minuti di backstages di calendari (con nudi in fascia protetta quando proprio loro fanno i moralisti), le notizie sugli strafalcioni dell’ultima pupa ignorante apparsa in tv, o del settantaseiesimo fidanzato della soubrette che ne cambia un centinaio all’anno. È questo il giornalismo italiano? Diceva  Martin Luther King:  “Nulla al mondo è più pericoloso che un'ignoranza sincera ed una stupidità coscienziosa”. Siamo arrivati al punto in cui essere informati è molto peggio.

mercoledì 13 ottobre 2010

L'odierna società è fallita!

di Vincenzo Laurendi

In un mese o poco piu' sono successi degli eventi che, a persone dotate di un minimo di sensibilita', farebbero accapponare la pelle. 
Partiamo da Messina. Al Policlinico si e' scatenata una rissa tra ginecologi, le cui scintille sono state i soldi da una parte ed il potere dall'altra, mentre la povera puerpera, che aveva assolutamente bisogno di un cesareo, si sentiva male e per pochissimo non ha perso il bambino.
Trasferiamoci ad Avetrana, un tranquillo paesino pugliese, sconvolto da una delle più grandi tragedie che abbiano mai investito la Puglia e l’Italia. Sarah Scazzi, una ragazzina quindicenne, scompare nel nulla. Si scatenano le congetture, come la ragazzata, la fuga d’amore, eccetera. Invece, era una fuga disperata, una fuga da uno zio che abusava di lei e non aveva il coraggio di denunciare. E questa tragedia si conlude qualche giorno fa, e cosa peggiore, in diretta. Federica Sciarelli, conduttrice di “Chi l’ha visto”, è in diretta con la madre della ragazza, quando le annuncia che lo zio ha confessato di aver ucciso ed occultato il cadavere della nipote. La poveretta è allibita, fissa il tavolino della stanza in cui è seduta senza riuscire a parlare o rispondere, ormai denudata, davanti a migliaia di telespettatori, della propria dignità e del rispetto del suo personale dolore. Dopo molto tempo si rende conto che è meglio chiudere il collegamento, quando ormai lo scoop era fatto. La ragazza è morta, è confermato, viene trovato il cadavere in posizione fetale (ed anche qui atti di sciacallaggio, come le foto del cadavere scattate all’obitorio che hanno fatto il giro di internet, vere o false che siano), uccisa dallo zio pedo-necrofilo. Quindi, alla tragedia si aggiungono dei contorni più neri e perversi possibili. Invece, a Milano un tassista è stato picchiato a sangue per aver investito un cane, fermato da più persone che si sono gettate su di lui. Ma non solo. Una delle ragazze coinvolte ha confessato, e le è stata bruciata la macchina, oltre ad aver ricevuto pesanti minacce. Ieri, 12 ottobre 2010, però, sarà una giornata da ricordare.
A Roma, ripreso dalle telecamere, si accende un diverbio tra un ragazzo di 20 anni e una donna di 32. I due arrivano alle mani, e la donna ha la peggio. Colpita con un pugno, cade a terra e batte con la nuca, finendo in coma. Il ragazzo va via, ma la tragedia non è questa. Vari passanti vedono la donna a terra, ma nessuno le presta soccorso. Chi si affretta ad oltrepassarla, chi guarda, chi addirittuta scatta foto coi telefonini. Passa svariato tempo prima che venga soccorsa, tempo che potrebbe essere prezioso.
E ieri sera, al Galileo Ferraris di Genova, è andata di scena Italia-Serbia. O meglio, no. Dei facinorosi slavi, animati da motivi politici (quindi, che col calcio non c’entravano nulla), divelgono reti, le tagliano con le pinze, rompono le pareti di plexiglas con gli schienali dei seggiolini. Insomma, scatenano un inferno. La Uefa decide, dopo 38’ di ritardo, di far giocare ugualmente. Poi, al settimo minuto, all’ennesimo lancio di petardi, l’arbitro scozzese Thomson decide di sospendere la partita definitivamente. Tutto rovinato. Lo scanadalo non consta solo nell’accaduto, ma anche nella totale impreparazione ed indecisione dell’Uefa. La rabbia del giocatore Stankovic e l’incredulità disarmata del gigante Zigic sono le foto della partita. Ha detto Prandelli che prima della partita, il portiere Stojkovic, nel loro spogliatoio, “tremava come una foglia”, aggredito da dei (permettetemi il termine) perfettissimi idioti che gli hanno lanciato addosso dei fumogeni.
Montezuma, 600 anni fa, strappava il cuore a vittime ancora vive per sacrificarle al Dio Sole, e ciò aveva aizzato il “perbenismo” di Cortès che decise il genocidio di una specie “senza civiltà e senza anima”. In 600 anni, però, non è cambiato granchè. Ci siamo solo più raffinati. Perché, diciamolo chiaramente, la società moderna è fallita miseramente. Figli che ammazzano i genitori, magari per due soldi, madri che gettano neonati nella spazzatura o nelle lavatrici, gente che preferisce dar più credito a ciarlatani strapagati che non hanno mai visto ma che sono in televisione, anziché a coloro che definiscono “amici”, ma che fanno cose più umili ma magari più belle ed autentiche, gente che se ne frega uno dell’altro, in un’epoca dove le pugnalate figurate fanno più male di quelle vere, dove l’amore e l’amicizia sono diventati sentimenti di convenienza.
Forse l’articolo è duro, crudo, cruento, scomodo. Ma la speranza è che sia la secchiata d’acqua gelida che ci svegli dal nostro letto di torpore, il colpo di faccia sul muro di una realtà surreale che piano piano ci sta sopraffacendo. Ormai ci stiamo desensibilizzando, ci stiamo abituando all’orrore, e la televisione ha dato il suo bel contributo, ad esempio, nel trattare terribili tragedie come spettacolo (vedi Garlasco, Erba e Cogne). Come ha detto il grande Caparezza “fa male come un dente che si caria/ il mio debole per le vittime della storia;/ le hanno odiate, umiliate, lasciate alla sorte/ per fargli la corte/ dopo la morte.” E la storia di vittime ne ha fatte tante, troppe. Come, tanto per citarne alcuni, il genocidio degli Indiani, degli Ebrei, degli Armeni, dei Tutsi, degli Incas, degli Aztechi e dei Maya. Proprio questi ultimi si stanno vendicando alla grande, perché ci hanno preso in pieno. Non ci sarà bisogno di catastrofi naturali o innaturali, per autoannichilirci. Il 2012 è già qui.

sabato 25 settembre 2010

No 'Ndrangheta: educare per combattere

di Natale Zappalà

Grande successo di pubblico per la manifestazione NO 'Ndrangheta tenutasi il 25 Settembre a Reggio Calabria. Iniziative come queste servono soprattutto a sensibilizzare l'opinione pubblica circa le reali intenzioni, da parte di tutti i calabresi, di combattere la malavita.
Un'occasione utile per catalizzare l'attenzione dei media nazionali sulla voglia di debellare la criminalità organizzata per poi estirparla definitivamente dalla regione.
Ciò, tuttavia, non basta. Una grande manifestazione, quale quella reggina, deve essere necessariamente supportata da un'opportuna convergenza di intenti e di comportamenti quotidiani alla quale ogni cittadino, nel proprio piccolo, possa ispirarsi.
La 'Ndrangheta non è costituita soltanto dagli atti criminosi più estremi e cruenti, ma da una serie di atteggiamenti e di mentalità spiccatamente criminosi che rappresentano un costante avallo alla sopravvivenza della malavita. In altre parole, le possibilità di sconfiggere la 'Ndrangheta dipendono dal cambiamento del modus vivendi tipico della maggioranza dei calabresi e dei meridionali in genere. Il cambiamento è il rimedio ottimale per prevenire la proliferazione delle mafie.
L'omertà è l'anticamera della 'Ndrangheta e di tutte le forme di associazionismo a delinquere. Eppure, ancora oggi, gran parte delle famiglie del Sud alleva i propri figli al silenzio, invitandoli sovente a coprire persino le marachelle dei bimbi in età scolare. Una piccola peste fa esplodere un petardo in aula: i compagni, evitando le accuse di “infamia”, tacciono il nome del colpevole alla maestra, che alla fine punisce tutta la classe con la nota di demerito. Coprire una colpa è sempre e comunque un atteggiamento criminoso, il preludio della mafiosità. Un esempio che, per altro, esemplifica il classico luogo comune riservato alla Calabria da parte di certi organi di informazione: “tutti i calabresi sono mafiosi”, poiché, al pari degli scolari summenzionati, non accettano di isolare ed emarginare i trasgressori; non è giusto né scientifico etichettare, d'accordo, ma questa è la realtà dei fatti, e fare sterile demagogia serve a poco.
Si bandisce un concorso pubblico al Sud: inizia dunque, fra i partecipanti, la ricerca spasmodica di amici, compari, cugini, conoscenti, al fine di sorpassare in graduatoria ed assicurarsi il posto in barba alla legge ed alla meritocrazia. Poi chi ha fatto il favore ne esige uno a sua volta, magari facendo votare la famiglia e gli amici del beneficiato per il suo partito alle prossime elezioni. Questo è clientelismo, anch'esso prefigurazione e favoreggiamento della mafia.
Esiste una norma x che vieta l'azione y. Ebbene, specie nel Mezzogiorno, il numero delle infrazioni alla regola x sarà sempre un multiplo di y divisibile per un milione. Ma le violazioni della legge, sia pure il semplice rispetto del divieto di sosta, non sono forse reati che deturpano la coscienza civica? E la mafia non abbonda laddove il senso civico latita?
Insomma, la malavita organizzata prospera nel Meridione perchè nel Meridione, in misura maggiore rispetto ad altre realtà italiane, persistono mentalità e comportamenti affini e consenzienti alla criminalità: omertà, clientelismo, coscienza civica inesistente, insofferenza alle leggi.
Sfido chiunque dei lettori a non riconoscersi in alcuno dei casi citati supra. Le eccezioni, se ci sono davvero, confermano la regola per questioni statistiche.
La verità è che siamo tutti (compreso chi scrive) collusi con la 'Ndrangheta, per costumi e cultura ben radicati in ognuno di noi. Ecco perché l'unico modo per combatterla è EDUCARE, insegnare ai propri figli che:
  • coprire un reato è un crimine, denunciare i colpevoli, in tutti i casi, non significa essere “spie” o “infami”, bensì tutelare l'interesse collettivo della cittadinanza.
  • Il “compare” è colui che battezza, cresima, fa da testimone agli sposalizi, oppure si tratta di un semplice appellativo con cui ci si rivolge all'amico od al compaesano. Il “compare” non è quel lestofante che presta favori a buon mercato; per il resto, si “compare” fino alla curva, dopo di ciò, si s-compare dalla visuale.
  • Ogni raccomandazione costituisce un dolorosissimo calcio nel sedere a chi vale di più, e rende più ardua la ricerca di opportunità di lavoro per i giovani meritevoli.
  • Rispettare la legge risulta il metodo più valido e veloce per assicurarsi che anche gli altri lo facciano. Sull'esempio si costruisce la virtù dei posteri.
    Occorre EDUCARE e DIVULGARE, se davvero desideriamo cambiare, se davvero auspichiamo che il bellissimo 28 settembre reggino non rimanga lettera morta.

    venerdì 24 settembre 2010

    C'era una volta la scuola: un commento a "Scuola ci manchi" di Stefania Guglielmo

    Lo scopo della scuola non è soltanto quello di munire i giovani di tutti gli strumenti necessari per accedere nella società come cittadini maturi (cioè i saperi, le scienze, le arti, le tecniche, i metodi, la disciplina). Consiste, anche, nel risvegliare, curare o stimolare in ogni giovane la coscienza della propria unicità e della urgenza di ogni unicità per migliorare la qualità della vita della nostra società ed estenderla a più persone rispetto ai pochi che ne godono attualmente. La scuola dovrebbe rendere consapevole ogni giovane di quanto è straordinario il proprio potenziale, di quanto può essere incisivo per la collettività, di quali e quante responsabilità derivano dallo specifico contributo di ognuno e di quanto tutta la comunità dipenda dal singolare apporto di ognuno, dal momento che siamo tutti interconnessi, dipendenti l’uno dall’altro, bisognosi l’uno dell’altro, indipendentemente dalla faccia, dal colore, dall’abito, dal lavoro, dal gusto, dalla fede e dalle opinioni che ognuno possiede. Mediante i giovani, la scuola dovrebbe prendere in mano il destino dell’umanità e proiettarlo scrupolosamente verso un futuro più vantaggioso, se non per tutti, per la maggior parte, in ogni dimensione che caratterizza la società umana e ne qualifica l’esistenza. Ma la scuola non fa nulla di ciò.
    Leggendo l’articolo “Scuola ci manchi, sarebbe stato bello conoscerti!” di Stefania Guglielmo ( http://agoghe.blogspot.com/2010/09/scuola-ci-manchi-sarebbe-stato-bello.html ), sono tornato indietro nel tempo, al momento in cui concludevo la mia esperienza scolastica e già cominciavo a effettuarne un bilancio. Sembra che il tempo si sia fermato: a distanza di oltre dieci anni, la scuola pare sia rimasta uguale.
    Animati dall’immenso desiderio di apprendere tutto quello che li attornia e di acquisire le conoscenze e le competenze utili per canalizzare le proprie energie allo scopo di edificare un futuro migliore, i giovani cominciano l’esperienza scolastica come degli innamorati per finirla, chi prima chi dopo, molto demoralizzati. Col passare del tempo, i giovani si ritrovano privi del coraggio, della fiducia in se stessi, dell’energia, della volontà, dell’amore per la conoscenza, delle proprie potenzialità e della speranza di contribuire a un miglioramento della società. L’artefice di questo totale svuotamento dell’identità di ogni alunno, è la programmatica indifferenza del corpo insegnante. Limitandosi a mandare avanti il programma, come se ci si trovasse in un ufficio nel quale è necessario lavorare “come da programma” per produrre quattrini, l’insegnante assiste indifferente alla lenta e inesorabile implosione di ogni proprio alunno. L’insegnante non vuole far da guida alle domande esistenziali e fondamentali dei giovani, domande così importanti per la loro formazione personale, civile, sociale, umana. Domande poste nel momento più fragile, insicuro, inesperto, inquieto della vita di un giovane. Queste domande, e i giovani con esse, si perdono senza risposta nel silenzio dell’insegnante.
    Per effetto di questo silenzio, ogni giovane perde se stesso, smarrisce il proprio io, la propria felice voglia di essere così com’è, di crescere, di imparare, di migliorarsi, di mettere tutto se stesso al servizio dell’altro. Si perde nel labirinto scolastico del sapere, specchio di una società avvizzita, e si lascia sfuggire la propria diversità, sulla base della quale si fonda la propria unicità. A causa della quiete funzionale per il completamento del programma, il giovane ormai privo della propria singolare identità, diventa un numero che rinvia contemporaneamente a una figura smorta seduta nell’aula e a un nome senza volto che occupa quel posto preciso della sequenza di numeri che compongono il registro. Il giovane non è nessuno: ognuno è uguale a tutti quelli che sono stati, che sono e che saranno in quelle quattro mura (la scuola) e su quei fogli di carta (il registro), che stabiliscono il destino dei giovani, della società, dell’avvenire. In questo indifferente movimento eternamente ritornante di omologazione e di spersonalizzazione, il giovane diviene uno studente, uno scolaro, un discente, un alunno, un allievo. In altre parole, un mezzo per muovere i tentacoli del sistema economico-scolastico e per produrre/far guadagnare quattrini. Il resto non serve.
    La macchina dello studio (il giovane) intraprende e mantiene costante con il mondo della conoscenza una relazione di devozione a-critica dei manuali, un rapporto tra un numero (il giovane) e precisi numeri di pagine per ottenere dall’insegnante un parere numerato e dai genitori una risposta numerata in moneta; una relazione tra un mezzo (il giovane) e un altro mezzo per sfornare altri mezzi (i soldi) con i quali l’insegnante può limitarsi a campare, comprando gli altri mezzi utili a tal fine (i beni alimentari, farmaceutici ecc.); un rapporto tra visi sbiaditi, date, calcoli e segni per produrre altri visi scoloriti, altre date, altri calcoli, altri segni. Il giovane vive tra le carceri del mondo della conoscenza sotto la tirannia del prof-centrismo, allo scopo di diventare prof-centrico: questa metamorfosi avviene nelle interrogazioni. Scorrendo la lista numerata, l’insegnante chiama una ad una le macchine dello studio come per avvertirle della propria udienza, dalla quale dipende la condanna o l’innocenza di ognuno. L’esito del processo, perché questo sembra ogni interrogazione, dipende dalla capacità di apprendimento della lezione spiegata dall’insegnante: chi ripete a memoria, per filo e per segno, le parole dell’insegnante, è salvo; chi no, corre il pericolo della bocciatura (e non della s-bocciatura). Lo scopo dell’interrogazione, questo è il prof-centrismo, è rendere soddisfatto di sé medesimo l’insegnante: si tratta di mostrarsi una sua copia perfetta e di cominciare a provare piacere di questo, lo stesso piacere che prova l’insegnante dall’altra parte della cattedra, nel vedere il proprio alter ego.
    Con questo diabolico meccanismo ogni giovane perde se stesso, i valori, i sogni e i punti di riferimento necessari per generare una trasformazione della società, realizzabile facendo leva sull’elemento che in primis costituisce la società stessa e del quale ogni giovane si sente parte integrante: l’umanità. Se la scuola non cambia, se non recupera un volto umano, non c’è da stupirsi se poi i giovani, copie perfette degli adulti, si comportano allo stesso modo degli adulti: vivono cioè aggrappandosi alla logica della raccomandazione, del clientelismo, della manipolazione di ogni sfera della società e della vita per sopravvivere tristemente.
    La scuola ha perso la propria essenza: è questo che Guglielmo denuncia con il proprio articolo. Chi non ha capito l’articolo, legga prima la frase “La scuola, uno di quei luoghi fondanti dove si diventa individui, oggi rende muti tutti gli urlanti” e poi rilegga l’articolo per intero. Questa frase vuol dire che la scuola, agli occhi di Guglielmo, dovrebbe essere quel luogo dove si inizia a gettare le basi per diventare se stessi. L’individuo è “chi non può essere diviso”, chi è in piena armonia con se stesso. Oggi, invece, chi urla la propria individualità – urla perché patisce la società nella quale vive e nessuno lo ascolta – chi urla la propria unicità viene azzittito e questo accade principalmente a scuola. Questo, cari lettori, deve far riflettere parecchio. L’articolo di Stefania Guglielmo evidenzia la necessità di interrogarsi sullo stato attuale della scuola, sul suo senso e sul suo destino. Questa indagine non riguarda l’ente scuola nel suo aspetto amministrativo-strutturale-funzionale bensì nel suo volto educativo-formativo. I giovani hanno un volto? Hanno un’identità? Hanno potenzialità uniche delle quali la società necessita? Se sì, come educarli? Come aiutare ogni singolo giovane a “comunicare” il proprio potenziale? Come guidare un giovane a essere se stesso?
    Se le parole dell’intera enciclopedia dei saperi, delle scienze, delle arti e delle tecniche umani non danno da pensare, fanno pensare, invece, le parole di una studentessa, il “bocciolo” scrittore dell’articolo in questione: “La scuola per un giovane è come il sole per un tenero bocciolo; se c’è buio, esso emana, al pari di ogni pianta, i suoi effetti peggiori”. Il buio scolastico, dunque, non piace a tutti: c’è qualcuno che desidera ancora la luce. Qualcuno può cominciare ad accenderla?
    di Salvatore Bellantone.

    Lo studente critico, il docente e l'apparente immortalità del sistema

    di Natale Zappalà

    Voci coraggiose e solitarie nella marmaglia desolata dei giovani studenti spesso si levano per rivendicare il diritto di conoscere, la voglia di fugare i dubbi con le domande, l'esigenza di vivere un'età scolastica che sia libera dal nozionismo, dalla numerologia e dalle graduatorie, dalle scartoffie burocratiche altrimenti imperanti in base ai criteri sui quali oggi si fonda la pubblica istruzione italiana.
    Ebbene, queste voci di dissenso, con buona pace dello spirito critico a cui dovrebbe ispirarsi ogni metodo educativo o formativo, vengono spesso messe a tacere, al pari delle eresie negli ambienti religiosi. Censure facilitate dalle condizioni di minoranza numerica in cui si muovono tali spiriti critici: così, dirigenti e corpo docente (non tutti certamente, ma in gran numero) hanno buon gioco nell'etichettare un adolescente che rifiuti di di appiattirsi nella massa come un disadattato sociale, solo perché antepone la ricerca della verità o lo scioglimento di un dubbio a quei falsi cameratismi di cui il sistema scolastico attuale costituisce il maggiore esportatore.
    La frequenza con la quale si tende a spegnere le manifestazioni di protesta al dogmatismo induce a pensare che in realtà, dietro la quotidianità della singola aula e del singolo istituto, si celi qualcosa di programmatico, delle linee generali di condotta promanate dall'alto, a cui si ispirano la gran parte dei dirigenti (quelli che una volta si chiamavano presidi, ma che con l'autonomia scolastica sono stati trasformati in delle specie di managers, sebbene i malridotti bilanci della maggioranza degli istituti della penisola la dicano lunga sulla buona riuscita dell'esperimento) e dei professori.
    Si sa, la scuola pubblica occupa cospicua parte del processo di formazione culturale di un giovane, almeno tredici anni di vita vissuta. Ne consegue che, sfornare migliaia di diciottenni istruiti a colpi di quiz a risposta multipla, manuali inattendibili di luoghi comuni e frasi fatte, iper-tecnicismi o laboratori di balletti e recitucchiole senza senso, deliri di PON, POF, GRAWL, MEGA TEST DI KAZ e CCT (salute, se l'ultima sigla citata era uno starnuto! Provate a leggere i piani di offerta formativa di un qualsiasi istituto superiore, vi troverete acronimi a iosa, probabilmente coniati allo scopo di non spiegare nulla a coloro che magari vorrebbero sapere cosa diavolo studino gli studenti!), facendogli credere di essere preparati solo perchè, a fine corso, ritirano un pezzo di carta-bollata attestante la raggiunta MATURITÀ, equivale a plasmare generazioni di ignoranti patentati. Brillanti diplomati che poi guarderanno determinati programmi televisivi, compreranno giornali scandalistici, acquisteranno solo certi prodotti imposti dalla pubblicità, voteranno secondo precise ideologie. Ragazzi avvinti ai modelli propugnati dalla società odierna – tronisti, veline e sgavettati vari – senza il minimo rispetto della COERENZA, senza la minima propensione a mettere in discussione lo status quo.
    Un sistema scolastico che mira dunque ad introdurre altri zombie schiavizzati all'interno di una società che, paradossalmente, sembra fare acqua da tutte le parti. Sembrerebbe autolesionismo, eppure esistono valide spiegazioni a tale oscurantismo evidente.
    Il segreto è che, facendo proliferare le capre, si legittima l'indispensabilità dei pastori. Ciò significa che allevare i giovani a perseguire falsi valori o false dottrine, significa preservare tutti coloro che si trovano nella stanza dei bottoni, i quali godranno della percezione errata di essere immortali, universalmente necessari ed onnipotenti.
    Ecco perché illustri cattedratici ottuagenari non esitano a minimizzare situazioni altrimenti drammatiche quali la vanità, l'inutilità e la deriva morale (morale in senso laico, si intende) del giovane-medio, capace di preservare la portata del ciuffo di capelli piuttosto che la propria dignità di essere vivente e pensante (la scorsa settimana, la celebre trasmissione televisiva “Le Iene” ha divulgato un interessante servizio in proposito). Ecco perché, nel loro piccolo, molti docenti tendono a tacciare le voci minoritarie di dissenso: ogni manifestazione di criticismo è un'aperta minaccia ad un sistema che garantisce la sopravvivenza di pochi sulle spalle dello stillicidio culturale dei molti.
    Poco importa se, quando questi furboni moriranno – vivaddio, docenti, dirigenti, politicanti, chierici e checchessia sono umani anch'essi – la società che avranno contribuito decisivamente a forgiare sarà un puzzolente acquitrino di apparenza priva di sostanza: l'importante sarà stato cibarsi di potere e di altrui volontà, senza pensare a chi verrà dopo di loro.
    Fortunatamente, per quanti manuali, scartoffie od accuse di disadattamento, il sistema riuscirà a produrre, la verità è che il criticismo non potrà mai essere debellato e le voci di minoritarie dei ragazzi coscienziosi continueranno a levarsi, al di là dell'imbecillità di chi pretende di inquadrarli entro categorie sterilmente demagogiche. E se davvero un giorno le cose cambieranno, sarà la Storia sovrana a condannare queste pantomime della pedagogia all'eterno ridicolo, per mezzo di un'inestinguibile damnatio memoriae fatta di pernacchie.

    martedì 21 settembre 2010

    Scuola ci manchi, sarebbe stato bello conoscerti!

    di Stefania Guglielmo

    Curiosità, giovinezza: parallelismi, realtà che crescono e talvolta svaniscono insieme.
    Futuro migliore, giovinezza ben vissuta: direttamente proporzionali.

    Sono i giovani, quei boccioli così criticati od a volte così protetti, dai quali i più grandi – le radici ed i possenti rami – pretendono di render bello tutto l’alberello.
    Ma un bocciolo è solo un bocciolo e spesso al troppo freddo cede.
    Un albero è bello quand’è fiorito, vi son le radici che compiono un lavoro assai più lodevole, ma a mutar il suo aspetto son proprio quei fiori.
    Affinché i fiori nascano, però, ci vuole cura.
    Così è un ragazzo, un giovane bocciolo, ha tutte le possibilità di diventare un bel tulipano odoroso; ma come mai, sovente, si sciupa e cade?
    Il bocciolo ha bisogno del sole, dell’acqua e del lavoro di tutto il suo albero per sfoggiare finalmente la sua estrema bellezza ed aprirsi in un fiore; così un ragazzo ha bisogno di una guida e di quei luoghi fondanti dove porsi domande per diventare un individuo ed un cittadino vero. La scuola per un giovane è come il sole per un tenero bocciolo; se c'è buio, esso emana, al pari di ogni pianta, i suoi effetti peggiori.

    Un giovane passa dalle cinque alle otto ore dentro un’aula scolastica in cui inizia a confrontarsi con i coetanei e con chi, per la prima volta, lo giudica e giudica le sue possibilità di diventare un fiore. Le ore trascorse lì dentro sono poi quelle della fase più inquieta, quando le domande sono troppe e la padronanza di sé è men che discreta. Sono le domande che appartengono al periodo in cui si crede più di essere il giudizio che gli altri sviluppano della propria persona e non quello che in realtà si sente di essere profondamente.

    Ecco ciò che la scuola dovrebbe essere: l'amorevole cura di ogni bocciolo, con la particolare attenzione e la valorizzazione di ogni suo diverso colore.
    Ciò che invece è: un ufficio di dipendenti e di malcapitati. Un ufficio in cui si firma, si prendono le presenze che spesso arrivano al ristretto numero di trentacinque persone. Numero, che bella parola! Ecco, infatti, quel bocciolo unico nelle sue sfumature trasformarsi nel numero dieci che ha il dovere di seguire almeno duecento ore di lezione. Lezioni la cui prassi è quasi sempre (non escluse rarissime eccezioni) lo studio di manuali talvolta non riportanti neppure la totale verità del tema; lezioni da imparare, non si sa se per il contentino dei genitori o di chicchessia, o per il piacere personale di procacciarsi un bel nove alla fine dell'anno; un nove nel quale molti hanno il coraggio di riconoscersi. Lezioni da rievocare nell’interrogazione, quasi mai coincidente al giusto giudizio di quelle poche persone a cui preme insegnarti qualcosa, a cui preme impartire una sapienza fatta di consapevolezze dettate dal tempo, dalla storia, che non si limitano ad essere le pagine di un libro che si venderà a metà prezzo l'anno venturo, ma sono, o potrebbero essere, le risposte che tanto cercavi.

    No, troppo faticoso e sconveniente attuare nella scuola, punto di partenza, un progetto in funzione del concreto cambiamento delle cose di cui tanto ci lamentiamo, non lo si faccia, per carità!
    Si continuino a recidere i petali di questi boccioli, li si riduca a mendicare un aiuto, poiché conviene lasciarli smarriti, senza riferimenti o valori, rendendoli possibili capri-espiatori di tutto, così si aggrapperanno alla prima sciocca proposta da parte delle istituzioni o di altre realtà manipolatrici, incapaci di criticare.
    Ma soprattutto lasciamo nell'ignoranza e facciamo tacere quelli che fra di loro non si limitano ad accontentarsi di tutelare i propri favori e, nonostante gli scontri con una realtà oggettivamente crudele, credono ancora, si domandano ancora e gridano il loro dissenso.

    La scuola, uno di quei luoghi fondanti dove si diventa individui, oggi rende muti tutti gli urlanti.
    Per questo: scuola ci manchi, sarebbe stato bello conoscerti!

    lunedì 20 settembre 2010

    Il ritardo, l'incontro e la fine della quiete: Nietzsche accusato nuovamente di fascismo

    di Salvatore Bellantone

    Non era un giorno come tanti altri. Mi trovavo alla stazione ferroviaria in attesa di un treno che mi riportasse a casa in soli venticinque minuti di viaggio, come di consueto. Ma il treno non arrivava. Quello delle 10:02 cancellato. Il successivo delle 10:45 soppresso pure. Quello delle 11:40 ritardava di mezzora ma appena fattesi le 12:10 il ritardo si era incrementato prima di cinquanta minuti, poi di altri trentacinque minuti. Fortunatamente, come si suol dire, quel giorno “mi ero svegliato col piede giusto” e attendevo pazientemente che il mio destino ferroviario si realizzasse, in compagnia del solito libro da viaggio. Per la cronaca: Moby Dick di Herman Melville. Alle 13:30, finalmente, il mio destino mi si stava per svelare. Arrivato il treno, sospesi la lettura. Salito a bordo (il treno si era svuotato del tutto), cercai il posto più vicino per accomodarmi e – non so se per volontà di un dio, di un diavolo, del caso e del fato stesso – fui attratto da un posto occupato soltanto da un quotidiano abbandonato. Si trattava del Corriere della sera di lunedì 6 settembre 2010. Lasciando Achab al momento in cui “non battezza” il suo nuovo rampone per la caccia alla Balena Bianca, cominciai a sfogliare il giornale e a leggere le notizie che più m’incuriosivano. Poco dopo il treno partì – dopo ben tre ore e mezza di attesa, dovute alle recenti alluvioni che hanno colpito il Sud – e non avevo più la possibilità di sfuggire al mio destino. Ero solo con Lui… e con il Corriere. Durante il viaggio, tra un articolo di politica, di economia e qualche annuncio pubblicitario, mi cadde l’occhio su un trafiletto intitolato Nietzsche, profeta senza enigma di Armando Torno, sormontato dalla dicitura “Lo «Zarathustra» di Sossio Giametta”. Ebbene, cari lettori, come recita un detto comune locale, “sta buono uno finché vuole un altro”. Fine della quiete: il problema è che Nietzsche non sta buono mai, manco morto, ed è costretto a rigirarsi nella tomba.
    Dopo una veloce presentazione di una nuova edizione di Così parlò Zarathustra, edita dalla Bompiani, a cura dello stesso Giametta; dopo una rapida ricapitolazione del pensiero di Nietzsche, il trafiletto si conclude con le parole: “Nietzsche non fu il precursore ma il costruttore del cuore del fascismo”. Personalmente, non capisco se questa frase è una provocazione, dunque un’astuzia letteraria (al fine di pubblicizzare Giametta, la nuova edizione dello Zarathustra da lui curata o Torno) oppure se è frutto della stupidità. Almeno, vorrei capire chi ne è l’autore: se è da attribuirsi a Giametta, cioè di chi si occupa del pensiero di Nietzsche da oltre cinquant’anni, la frase in esame risulta vergognosa; se invece è da assegnarsi a Torno, beh, in questo caso, caro Torno, mi permetto di dire che l’ignoranza è una cattiva bestia, non solo per lei ma soprattutto per l’intero mondo scolatico-accademico italiano. Non sarebbe l’ora di iniziare a insegnare nelle scuole e nelle università che Nietzsche non fu il filosofo del fascismo?
    A distanza di quasi settant’anni di studi critici e specialistici del pensiero e dell’intera opera nietzscheani, come si fa a ritenere tuttora Nietzsche un fascista? Perché che altro significa affermare che Nietzsche non è il precursore ma “il costruttore del cuore del fascismo” se non questo, e cioè che Nietzsche era un fascista? E poi che cosa s’intende nell’articolo usando il termine “fascismo”? Il fascismo italiano (mussoliniano)? O il nazismo (per il fatto che quest’ultimo è una forma di fascismo)? O tutti e due?
    Il fascismo è un movimento politico la cui vocazione è la concretizzazione di un regime caratterialmente totalitario, i cui confini inizialmente coincidono con i limiti territoriali di uno Stato perché fungono da chiave preparatoria del suo volto imperialistico-planetario. L’indole del fascismo, infatti, è l’attuazione del dominio di un uomo solo su tutto il globo. Il fascismo prende vita in Italia nel 1919 ad opera di Mussolini e il nome deriva dal “fascio littorio”, simbolo del potere dell’antica Roma, una chiara immagine che la concezione politica cui il fascismo si ispira è quella dell’Impero Romano. Con il termine “fascismo” si è soliti definire movimenti e regimi politici analoghi al fascismo italiano, “analoghi” in quanto, direttamente e non, si sono ispirati a questo. Per ricordarne alcuni, basti pensare all’Estado Novo di Salazar in Portogallo; alla Falange spagnola di Franco in Spagna; all’Unione nazionale norvegese di Quisling in Norvegia; e, naturalmente, al Nazionalsocialismo tedesco di Hitler in Germania. Il fascismo italiano fu un movimento privo di una vera e propria ideologia fino al 1925, anno in cui Gentile scrisse il Manifesto degli intellettuali del fascismo, una prima sistematizzazione dell’ideologia fascista. Gentile si ispirò ad Hegel (passando per Spaventa) e a Marx.
    Nietzsche morì fisicamente nel 1900 ma mentalmente nel 1889, quando lo colse la pazzia. Prima di queste due morti, Nietzsche viaggiò molto e soggiornò più volte in Italia. Ma il tempo in cui ciò avvenne, naturalmente, è antecedente alla sua duplice morte – si trovava a Torino quando lo colse la pazzia – ed è estremamente lontano dal tempo della nascita del fascismo. Se bisogna parlare di un “costruttore del cuore del fascismo” e se proprio non si vuole guardare all’Impero Romano (che ne è soltanto l’ispiratore), si guardi a Gentile (ispiratosi a Hegel e a Marx) e non a Nietzsche il quale, per “forza di morte” e “a causa di una evidente distanza temporale”, non era in condizioni di costruire direttamente e volontariamente il cuore di questa ideologia. Se nella frase “Nietzsche non fu il precursore ma il costruttore del cuore del fascismo”, con il termine “fascismo” s’intende non quello italiano ma quello tedesco, dunque il nazismo (nazionalsocialismo); o se s’intende sia quello italiano sia quello tedesco e si afferma “silenziosamente” che Nietzsche ha costruito indirettamente e involontariamente queste ideologie, allora le chiedo, caro Torno (o caro Giametta, nel caso in cui la frase in questione provenga da lei): è sicuro che tale affermazione corrisponda a verità? È sicuro che Nietzsche abbia costruito il cuore dell’ideologia fascista (italiana e tedesca), in modo indiretto e involontario? E se si sbagliasse? Se si provasse che non è proprio così (ed è già stato fatto, basti pensare per esempio ad Heidegger e a Penzo)? Che figura farebbe? Non sarebbe il caso di metter mano a un’errata corrige e di iniziare a pensare a Nietzsche al di là di destra e di sinistra?

    Disponibile il N°0 della Rivista Agoghé da scaricare gratuitamente dal web

    Il Progetto Agoghé è un'idea partorita da un gruppo di giovani accumunati dal piacere eretico della scrittura. Sul finire dell'Agosto 2010 abbiamo creato un blog – http://agoghe.blogspot.com – il cui fine è coinvolgere tutti i ragazzi dai quindici ai venti anni interessati a dire la propria su qualsivoglia argomento, senza condizionamenti di carattere politico o religioso, ma attenendosi al solo rispetto dell'altrui diversità, evitando di offendere chicchessia o checchessia.
    La buona riuscita di questo folle esperimento, gli elogi giuntici in redazione e la pubblicazione dei nostri articoli promossa da portali di rilevanza nazionale, ci hanno infine convinto a continuare ad osare, proponendo ai nostri lettori, in forma assolutamente gratuita e liberamente scaricabile dal web, una rivista che funga da summa dei brani, pubblicati sul nostro blog, più graditi dai lettori.



    Chiunque sia interessato a collaborare, partecipando della follia che anima il mondo di Agoghé può scrivere a progettoagoghe@hotmail.it.
    Potete esprimere opinioni, redigere brani giornalistici, saggi, poesie o racconti, pubblicare video musicali, tutto ciò che avete da dire, da fare o da scrivere può essere divulgato attraverso questo modesto spazio.
    L'idea di fondo è quella di individuare, valorizzare e coordinare le opinioni, le proposte e le prospettive dei giovanissimi, cercando possibilmente di stimolare un dibattito costruttivo sul futuro di tutti noi.