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sabato 25 settembre 2010

No 'Ndrangheta: educare per combattere

di Natale Zappalà

Grande successo di pubblico per la manifestazione NO 'Ndrangheta tenutasi il 25 Settembre a Reggio Calabria. Iniziative come queste servono soprattutto a sensibilizzare l'opinione pubblica circa le reali intenzioni, da parte di tutti i calabresi, di combattere la malavita.
Un'occasione utile per catalizzare l'attenzione dei media nazionali sulla voglia di debellare la criminalità organizzata per poi estirparla definitivamente dalla regione.
Ciò, tuttavia, non basta. Una grande manifestazione, quale quella reggina, deve essere necessariamente supportata da un'opportuna convergenza di intenti e di comportamenti quotidiani alla quale ogni cittadino, nel proprio piccolo, possa ispirarsi.
La 'Ndrangheta non è costituita soltanto dagli atti criminosi più estremi e cruenti, ma da una serie di atteggiamenti e di mentalità spiccatamente criminosi che rappresentano un costante avallo alla sopravvivenza della malavita. In altre parole, le possibilità di sconfiggere la 'Ndrangheta dipendono dal cambiamento del modus vivendi tipico della maggioranza dei calabresi e dei meridionali in genere. Il cambiamento è il rimedio ottimale per prevenire la proliferazione delle mafie.
L'omertà è l'anticamera della 'Ndrangheta e di tutte le forme di associazionismo a delinquere. Eppure, ancora oggi, gran parte delle famiglie del Sud alleva i propri figli al silenzio, invitandoli sovente a coprire persino le marachelle dei bimbi in età scolare. Una piccola peste fa esplodere un petardo in aula: i compagni, evitando le accuse di “infamia”, tacciono il nome del colpevole alla maestra, che alla fine punisce tutta la classe con la nota di demerito. Coprire una colpa è sempre e comunque un atteggiamento criminoso, il preludio della mafiosità. Un esempio che, per altro, esemplifica il classico luogo comune riservato alla Calabria da parte di certi organi di informazione: “tutti i calabresi sono mafiosi”, poiché, al pari degli scolari summenzionati, non accettano di isolare ed emarginare i trasgressori; non è giusto né scientifico etichettare, d'accordo, ma questa è la realtà dei fatti, e fare sterile demagogia serve a poco.
Si bandisce un concorso pubblico al Sud: inizia dunque, fra i partecipanti, la ricerca spasmodica di amici, compari, cugini, conoscenti, al fine di sorpassare in graduatoria ed assicurarsi il posto in barba alla legge ed alla meritocrazia. Poi chi ha fatto il favore ne esige uno a sua volta, magari facendo votare la famiglia e gli amici del beneficiato per il suo partito alle prossime elezioni. Questo è clientelismo, anch'esso prefigurazione e favoreggiamento della mafia.
Esiste una norma x che vieta l'azione y. Ebbene, specie nel Mezzogiorno, il numero delle infrazioni alla regola x sarà sempre un multiplo di y divisibile per un milione. Ma le violazioni della legge, sia pure il semplice rispetto del divieto di sosta, non sono forse reati che deturpano la coscienza civica? E la mafia non abbonda laddove il senso civico latita?
Insomma, la malavita organizzata prospera nel Meridione perchè nel Meridione, in misura maggiore rispetto ad altre realtà italiane, persistono mentalità e comportamenti affini e consenzienti alla criminalità: omertà, clientelismo, coscienza civica inesistente, insofferenza alle leggi.
Sfido chiunque dei lettori a non riconoscersi in alcuno dei casi citati supra. Le eccezioni, se ci sono davvero, confermano la regola per questioni statistiche.
La verità è che siamo tutti (compreso chi scrive) collusi con la 'Ndrangheta, per costumi e cultura ben radicati in ognuno di noi. Ecco perché l'unico modo per combatterla è EDUCARE, insegnare ai propri figli che:
  • coprire un reato è un crimine, denunciare i colpevoli, in tutti i casi, non significa essere “spie” o “infami”, bensì tutelare l'interesse collettivo della cittadinanza.
  • Il “compare” è colui che battezza, cresima, fa da testimone agli sposalizi, oppure si tratta di un semplice appellativo con cui ci si rivolge all'amico od al compaesano. Il “compare” non è quel lestofante che presta favori a buon mercato; per il resto, si “compare” fino alla curva, dopo di ciò, si s-compare dalla visuale.
  • Ogni raccomandazione costituisce un dolorosissimo calcio nel sedere a chi vale di più, e rende più ardua la ricerca di opportunità di lavoro per i giovani meritevoli.
  • Rispettare la legge risulta il metodo più valido e veloce per assicurarsi che anche gli altri lo facciano. Sull'esempio si costruisce la virtù dei posteri.
    Occorre EDUCARE e DIVULGARE, se davvero desideriamo cambiare, se davvero auspichiamo che il bellissimo 28 settembre reggino non rimanga lettera morta.

    venerdì 24 settembre 2010

    C'era una volta la scuola: un commento a "Scuola ci manchi" di Stefania Guglielmo

    Lo scopo della scuola non è soltanto quello di munire i giovani di tutti gli strumenti necessari per accedere nella società come cittadini maturi (cioè i saperi, le scienze, le arti, le tecniche, i metodi, la disciplina). Consiste, anche, nel risvegliare, curare o stimolare in ogni giovane la coscienza della propria unicità e della urgenza di ogni unicità per migliorare la qualità della vita della nostra società ed estenderla a più persone rispetto ai pochi che ne godono attualmente. La scuola dovrebbe rendere consapevole ogni giovane di quanto è straordinario il proprio potenziale, di quanto può essere incisivo per la collettività, di quali e quante responsabilità derivano dallo specifico contributo di ognuno e di quanto tutta la comunità dipenda dal singolare apporto di ognuno, dal momento che siamo tutti interconnessi, dipendenti l’uno dall’altro, bisognosi l’uno dell’altro, indipendentemente dalla faccia, dal colore, dall’abito, dal lavoro, dal gusto, dalla fede e dalle opinioni che ognuno possiede. Mediante i giovani, la scuola dovrebbe prendere in mano il destino dell’umanità e proiettarlo scrupolosamente verso un futuro più vantaggioso, se non per tutti, per la maggior parte, in ogni dimensione che caratterizza la società umana e ne qualifica l’esistenza. Ma la scuola non fa nulla di ciò.
    Leggendo l’articolo “Scuola ci manchi, sarebbe stato bello conoscerti!” di Stefania Guglielmo ( http://agoghe.blogspot.com/2010/09/scuola-ci-manchi-sarebbe-stato-bello.html ), sono tornato indietro nel tempo, al momento in cui concludevo la mia esperienza scolastica e già cominciavo a effettuarne un bilancio. Sembra che il tempo si sia fermato: a distanza di oltre dieci anni, la scuola pare sia rimasta uguale.
    Animati dall’immenso desiderio di apprendere tutto quello che li attornia e di acquisire le conoscenze e le competenze utili per canalizzare le proprie energie allo scopo di edificare un futuro migliore, i giovani cominciano l’esperienza scolastica come degli innamorati per finirla, chi prima chi dopo, molto demoralizzati. Col passare del tempo, i giovani si ritrovano privi del coraggio, della fiducia in se stessi, dell’energia, della volontà, dell’amore per la conoscenza, delle proprie potenzialità e della speranza di contribuire a un miglioramento della società. L’artefice di questo totale svuotamento dell’identità di ogni alunno, è la programmatica indifferenza del corpo insegnante. Limitandosi a mandare avanti il programma, come se ci si trovasse in un ufficio nel quale è necessario lavorare “come da programma” per produrre quattrini, l’insegnante assiste indifferente alla lenta e inesorabile implosione di ogni proprio alunno. L’insegnante non vuole far da guida alle domande esistenziali e fondamentali dei giovani, domande così importanti per la loro formazione personale, civile, sociale, umana. Domande poste nel momento più fragile, insicuro, inesperto, inquieto della vita di un giovane. Queste domande, e i giovani con esse, si perdono senza risposta nel silenzio dell’insegnante.
    Per effetto di questo silenzio, ogni giovane perde se stesso, smarrisce il proprio io, la propria felice voglia di essere così com’è, di crescere, di imparare, di migliorarsi, di mettere tutto se stesso al servizio dell’altro. Si perde nel labirinto scolastico del sapere, specchio di una società avvizzita, e si lascia sfuggire la propria diversità, sulla base della quale si fonda la propria unicità. A causa della quiete funzionale per il completamento del programma, il giovane ormai privo della propria singolare identità, diventa un numero che rinvia contemporaneamente a una figura smorta seduta nell’aula e a un nome senza volto che occupa quel posto preciso della sequenza di numeri che compongono il registro. Il giovane non è nessuno: ognuno è uguale a tutti quelli che sono stati, che sono e che saranno in quelle quattro mura (la scuola) e su quei fogli di carta (il registro), che stabiliscono il destino dei giovani, della società, dell’avvenire. In questo indifferente movimento eternamente ritornante di omologazione e di spersonalizzazione, il giovane diviene uno studente, uno scolaro, un discente, un alunno, un allievo. In altre parole, un mezzo per muovere i tentacoli del sistema economico-scolastico e per produrre/far guadagnare quattrini. Il resto non serve.
    La macchina dello studio (il giovane) intraprende e mantiene costante con il mondo della conoscenza una relazione di devozione a-critica dei manuali, un rapporto tra un numero (il giovane) e precisi numeri di pagine per ottenere dall’insegnante un parere numerato e dai genitori una risposta numerata in moneta; una relazione tra un mezzo (il giovane) e un altro mezzo per sfornare altri mezzi (i soldi) con i quali l’insegnante può limitarsi a campare, comprando gli altri mezzi utili a tal fine (i beni alimentari, farmaceutici ecc.); un rapporto tra visi sbiaditi, date, calcoli e segni per produrre altri visi scoloriti, altre date, altri calcoli, altri segni. Il giovane vive tra le carceri del mondo della conoscenza sotto la tirannia del prof-centrismo, allo scopo di diventare prof-centrico: questa metamorfosi avviene nelle interrogazioni. Scorrendo la lista numerata, l’insegnante chiama una ad una le macchine dello studio come per avvertirle della propria udienza, dalla quale dipende la condanna o l’innocenza di ognuno. L’esito del processo, perché questo sembra ogni interrogazione, dipende dalla capacità di apprendimento della lezione spiegata dall’insegnante: chi ripete a memoria, per filo e per segno, le parole dell’insegnante, è salvo; chi no, corre il pericolo della bocciatura (e non della s-bocciatura). Lo scopo dell’interrogazione, questo è il prof-centrismo, è rendere soddisfatto di sé medesimo l’insegnante: si tratta di mostrarsi una sua copia perfetta e di cominciare a provare piacere di questo, lo stesso piacere che prova l’insegnante dall’altra parte della cattedra, nel vedere il proprio alter ego.
    Con questo diabolico meccanismo ogni giovane perde se stesso, i valori, i sogni e i punti di riferimento necessari per generare una trasformazione della società, realizzabile facendo leva sull’elemento che in primis costituisce la società stessa e del quale ogni giovane si sente parte integrante: l’umanità. Se la scuola non cambia, se non recupera un volto umano, non c’è da stupirsi se poi i giovani, copie perfette degli adulti, si comportano allo stesso modo degli adulti: vivono cioè aggrappandosi alla logica della raccomandazione, del clientelismo, della manipolazione di ogni sfera della società e della vita per sopravvivere tristemente.
    La scuola ha perso la propria essenza: è questo che Guglielmo denuncia con il proprio articolo. Chi non ha capito l’articolo, legga prima la frase “La scuola, uno di quei luoghi fondanti dove si diventa individui, oggi rende muti tutti gli urlanti” e poi rilegga l’articolo per intero. Questa frase vuol dire che la scuola, agli occhi di Guglielmo, dovrebbe essere quel luogo dove si inizia a gettare le basi per diventare se stessi. L’individuo è “chi non può essere diviso”, chi è in piena armonia con se stesso. Oggi, invece, chi urla la propria individualità – urla perché patisce la società nella quale vive e nessuno lo ascolta – chi urla la propria unicità viene azzittito e questo accade principalmente a scuola. Questo, cari lettori, deve far riflettere parecchio. L’articolo di Stefania Guglielmo evidenzia la necessità di interrogarsi sullo stato attuale della scuola, sul suo senso e sul suo destino. Questa indagine non riguarda l’ente scuola nel suo aspetto amministrativo-strutturale-funzionale bensì nel suo volto educativo-formativo. I giovani hanno un volto? Hanno un’identità? Hanno potenzialità uniche delle quali la società necessita? Se sì, come educarli? Come aiutare ogni singolo giovane a “comunicare” il proprio potenziale? Come guidare un giovane a essere se stesso?
    Se le parole dell’intera enciclopedia dei saperi, delle scienze, delle arti e delle tecniche umani non danno da pensare, fanno pensare, invece, le parole di una studentessa, il “bocciolo” scrittore dell’articolo in questione: “La scuola per un giovane è come il sole per un tenero bocciolo; se c’è buio, esso emana, al pari di ogni pianta, i suoi effetti peggiori”. Il buio scolastico, dunque, non piace a tutti: c’è qualcuno che desidera ancora la luce. Qualcuno può cominciare ad accenderla?
    di Salvatore Bellantone.

    Lo studente critico, il docente e l'apparente immortalità del sistema

    di Natale Zappalà

    Voci coraggiose e solitarie nella marmaglia desolata dei giovani studenti spesso si levano per rivendicare il diritto di conoscere, la voglia di fugare i dubbi con le domande, l'esigenza di vivere un'età scolastica che sia libera dal nozionismo, dalla numerologia e dalle graduatorie, dalle scartoffie burocratiche altrimenti imperanti in base ai criteri sui quali oggi si fonda la pubblica istruzione italiana.
    Ebbene, queste voci di dissenso, con buona pace dello spirito critico a cui dovrebbe ispirarsi ogni metodo educativo o formativo, vengono spesso messe a tacere, al pari delle eresie negli ambienti religiosi. Censure facilitate dalle condizioni di minoranza numerica in cui si muovono tali spiriti critici: così, dirigenti e corpo docente (non tutti certamente, ma in gran numero) hanno buon gioco nell'etichettare un adolescente che rifiuti di di appiattirsi nella massa come un disadattato sociale, solo perché antepone la ricerca della verità o lo scioglimento di un dubbio a quei falsi cameratismi di cui il sistema scolastico attuale costituisce il maggiore esportatore.
    La frequenza con la quale si tende a spegnere le manifestazioni di protesta al dogmatismo induce a pensare che in realtà, dietro la quotidianità della singola aula e del singolo istituto, si celi qualcosa di programmatico, delle linee generali di condotta promanate dall'alto, a cui si ispirano la gran parte dei dirigenti (quelli che una volta si chiamavano presidi, ma che con l'autonomia scolastica sono stati trasformati in delle specie di managers, sebbene i malridotti bilanci della maggioranza degli istituti della penisola la dicano lunga sulla buona riuscita dell'esperimento) e dei professori.
    Si sa, la scuola pubblica occupa cospicua parte del processo di formazione culturale di un giovane, almeno tredici anni di vita vissuta. Ne consegue che, sfornare migliaia di diciottenni istruiti a colpi di quiz a risposta multipla, manuali inattendibili di luoghi comuni e frasi fatte, iper-tecnicismi o laboratori di balletti e recitucchiole senza senso, deliri di PON, POF, GRAWL, MEGA TEST DI KAZ e CCT (salute, se l'ultima sigla citata era uno starnuto! Provate a leggere i piani di offerta formativa di un qualsiasi istituto superiore, vi troverete acronimi a iosa, probabilmente coniati allo scopo di non spiegare nulla a coloro che magari vorrebbero sapere cosa diavolo studino gli studenti!), facendogli credere di essere preparati solo perchè, a fine corso, ritirano un pezzo di carta-bollata attestante la raggiunta MATURITÀ, equivale a plasmare generazioni di ignoranti patentati. Brillanti diplomati che poi guarderanno determinati programmi televisivi, compreranno giornali scandalistici, acquisteranno solo certi prodotti imposti dalla pubblicità, voteranno secondo precise ideologie. Ragazzi avvinti ai modelli propugnati dalla società odierna – tronisti, veline e sgavettati vari – senza il minimo rispetto della COERENZA, senza la minima propensione a mettere in discussione lo status quo.
    Un sistema scolastico che mira dunque ad introdurre altri zombie schiavizzati all'interno di una società che, paradossalmente, sembra fare acqua da tutte le parti. Sembrerebbe autolesionismo, eppure esistono valide spiegazioni a tale oscurantismo evidente.
    Il segreto è che, facendo proliferare le capre, si legittima l'indispensabilità dei pastori. Ciò significa che allevare i giovani a perseguire falsi valori o false dottrine, significa preservare tutti coloro che si trovano nella stanza dei bottoni, i quali godranno della percezione errata di essere immortali, universalmente necessari ed onnipotenti.
    Ecco perché illustri cattedratici ottuagenari non esitano a minimizzare situazioni altrimenti drammatiche quali la vanità, l'inutilità e la deriva morale (morale in senso laico, si intende) del giovane-medio, capace di preservare la portata del ciuffo di capelli piuttosto che la propria dignità di essere vivente e pensante (la scorsa settimana, la celebre trasmissione televisiva “Le Iene” ha divulgato un interessante servizio in proposito). Ecco perché, nel loro piccolo, molti docenti tendono a tacciare le voci minoritarie di dissenso: ogni manifestazione di criticismo è un'aperta minaccia ad un sistema che garantisce la sopravvivenza di pochi sulle spalle dello stillicidio culturale dei molti.
    Poco importa se, quando questi furboni moriranno – vivaddio, docenti, dirigenti, politicanti, chierici e checchessia sono umani anch'essi – la società che avranno contribuito decisivamente a forgiare sarà un puzzolente acquitrino di apparenza priva di sostanza: l'importante sarà stato cibarsi di potere e di altrui volontà, senza pensare a chi verrà dopo di loro.
    Fortunatamente, per quanti manuali, scartoffie od accuse di disadattamento, il sistema riuscirà a produrre, la verità è che il criticismo non potrà mai essere debellato e le voci di minoritarie dei ragazzi coscienziosi continueranno a levarsi, al di là dell'imbecillità di chi pretende di inquadrarli entro categorie sterilmente demagogiche. E se davvero un giorno le cose cambieranno, sarà la Storia sovrana a condannare queste pantomime della pedagogia all'eterno ridicolo, per mezzo di un'inestinguibile damnatio memoriae fatta di pernacchie.

    martedì 21 settembre 2010

    Scuola ci manchi, sarebbe stato bello conoscerti!

    di Stefania Guglielmo

    Curiosità, giovinezza: parallelismi, realtà che crescono e talvolta svaniscono insieme.
    Futuro migliore, giovinezza ben vissuta: direttamente proporzionali.

    Sono i giovani, quei boccioli così criticati od a volte così protetti, dai quali i più grandi – le radici ed i possenti rami – pretendono di render bello tutto l’alberello.
    Ma un bocciolo è solo un bocciolo e spesso al troppo freddo cede.
    Un albero è bello quand’è fiorito, vi son le radici che compiono un lavoro assai più lodevole, ma a mutar il suo aspetto son proprio quei fiori.
    Affinché i fiori nascano, però, ci vuole cura.
    Così è un ragazzo, un giovane bocciolo, ha tutte le possibilità di diventare un bel tulipano odoroso; ma come mai, sovente, si sciupa e cade?
    Il bocciolo ha bisogno del sole, dell’acqua e del lavoro di tutto il suo albero per sfoggiare finalmente la sua estrema bellezza ed aprirsi in un fiore; così un ragazzo ha bisogno di una guida e di quei luoghi fondanti dove porsi domande per diventare un individuo ed un cittadino vero. La scuola per un giovane è come il sole per un tenero bocciolo; se c'è buio, esso emana, al pari di ogni pianta, i suoi effetti peggiori.

    Un giovane passa dalle cinque alle otto ore dentro un’aula scolastica in cui inizia a confrontarsi con i coetanei e con chi, per la prima volta, lo giudica e giudica le sue possibilità di diventare un fiore. Le ore trascorse lì dentro sono poi quelle della fase più inquieta, quando le domande sono troppe e la padronanza di sé è men che discreta. Sono le domande che appartengono al periodo in cui si crede più di essere il giudizio che gli altri sviluppano della propria persona e non quello che in realtà si sente di essere profondamente.

    Ecco ciò che la scuola dovrebbe essere: l'amorevole cura di ogni bocciolo, con la particolare attenzione e la valorizzazione di ogni suo diverso colore.
    Ciò che invece è: un ufficio di dipendenti e di malcapitati. Un ufficio in cui si firma, si prendono le presenze che spesso arrivano al ristretto numero di trentacinque persone. Numero, che bella parola! Ecco, infatti, quel bocciolo unico nelle sue sfumature trasformarsi nel numero dieci che ha il dovere di seguire almeno duecento ore di lezione. Lezioni la cui prassi è quasi sempre (non escluse rarissime eccezioni) lo studio di manuali talvolta non riportanti neppure la totale verità del tema; lezioni da imparare, non si sa se per il contentino dei genitori o di chicchessia, o per il piacere personale di procacciarsi un bel nove alla fine dell'anno; un nove nel quale molti hanno il coraggio di riconoscersi. Lezioni da rievocare nell’interrogazione, quasi mai coincidente al giusto giudizio di quelle poche persone a cui preme insegnarti qualcosa, a cui preme impartire una sapienza fatta di consapevolezze dettate dal tempo, dalla storia, che non si limitano ad essere le pagine di un libro che si venderà a metà prezzo l'anno venturo, ma sono, o potrebbero essere, le risposte che tanto cercavi.

    No, troppo faticoso e sconveniente attuare nella scuola, punto di partenza, un progetto in funzione del concreto cambiamento delle cose di cui tanto ci lamentiamo, non lo si faccia, per carità!
    Si continuino a recidere i petali di questi boccioli, li si riduca a mendicare un aiuto, poiché conviene lasciarli smarriti, senza riferimenti o valori, rendendoli possibili capri-espiatori di tutto, così si aggrapperanno alla prima sciocca proposta da parte delle istituzioni o di altre realtà manipolatrici, incapaci di criticare.
    Ma soprattutto lasciamo nell'ignoranza e facciamo tacere quelli che fra di loro non si limitano ad accontentarsi di tutelare i propri favori e, nonostante gli scontri con una realtà oggettivamente crudele, credono ancora, si domandano ancora e gridano il loro dissenso.

    La scuola, uno di quei luoghi fondanti dove si diventa individui, oggi rende muti tutti gli urlanti.
    Per questo: scuola ci manchi, sarebbe stato bello conoscerti!

    lunedì 20 settembre 2010

    Il ritardo, l'incontro e la fine della quiete: Nietzsche accusato nuovamente di fascismo

    di Salvatore Bellantone

    Non era un giorno come tanti altri. Mi trovavo alla stazione ferroviaria in attesa di un treno che mi riportasse a casa in soli venticinque minuti di viaggio, come di consueto. Ma il treno non arrivava. Quello delle 10:02 cancellato. Il successivo delle 10:45 soppresso pure. Quello delle 11:40 ritardava di mezzora ma appena fattesi le 12:10 il ritardo si era incrementato prima di cinquanta minuti, poi di altri trentacinque minuti. Fortunatamente, come si suol dire, quel giorno “mi ero svegliato col piede giusto” e attendevo pazientemente che il mio destino ferroviario si realizzasse, in compagnia del solito libro da viaggio. Per la cronaca: Moby Dick di Herman Melville. Alle 13:30, finalmente, il mio destino mi si stava per svelare. Arrivato il treno, sospesi la lettura. Salito a bordo (il treno si era svuotato del tutto), cercai il posto più vicino per accomodarmi e – non so se per volontà di un dio, di un diavolo, del caso e del fato stesso – fui attratto da un posto occupato soltanto da un quotidiano abbandonato. Si trattava del Corriere della sera di lunedì 6 settembre 2010. Lasciando Achab al momento in cui “non battezza” il suo nuovo rampone per la caccia alla Balena Bianca, cominciai a sfogliare il giornale e a leggere le notizie che più m’incuriosivano. Poco dopo il treno partì – dopo ben tre ore e mezza di attesa, dovute alle recenti alluvioni che hanno colpito il Sud – e non avevo più la possibilità di sfuggire al mio destino. Ero solo con Lui… e con il Corriere. Durante il viaggio, tra un articolo di politica, di economia e qualche annuncio pubblicitario, mi cadde l’occhio su un trafiletto intitolato Nietzsche, profeta senza enigma di Armando Torno, sormontato dalla dicitura “Lo «Zarathustra» di Sossio Giametta”. Ebbene, cari lettori, come recita un detto comune locale, “sta buono uno finché vuole un altro”. Fine della quiete: il problema è che Nietzsche non sta buono mai, manco morto, ed è costretto a rigirarsi nella tomba.
    Dopo una veloce presentazione di una nuova edizione di Così parlò Zarathustra, edita dalla Bompiani, a cura dello stesso Giametta; dopo una rapida ricapitolazione del pensiero di Nietzsche, il trafiletto si conclude con le parole: “Nietzsche non fu il precursore ma il costruttore del cuore del fascismo”. Personalmente, non capisco se questa frase è una provocazione, dunque un’astuzia letteraria (al fine di pubblicizzare Giametta, la nuova edizione dello Zarathustra da lui curata o Torno) oppure se è frutto della stupidità. Almeno, vorrei capire chi ne è l’autore: se è da attribuirsi a Giametta, cioè di chi si occupa del pensiero di Nietzsche da oltre cinquant’anni, la frase in esame risulta vergognosa; se invece è da assegnarsi a Torno, beh, in questo caso, caro Torno, mi permetto di dire che l’ignoranza è una cattiva bestia, non solo per lei ma soprattutto per l’intero mondo scolatico-accademico italiano. Non sarebbe l’ora di iniziare a insegnare nelle scuole e nelle università che Nietzsche non fu il filosofo del fascismo?
    A distanza di quasi settant’anni di studi critici e specialistici del pensiero e dell’intera opera nietzscheani, come si fa a ritenere tuttora Nietzsche un fascista? Perché che altro significa affermare che Nietzsche non è il precursore ma “il costruttore del cuore del fascismo” se non questo, e cioè che Nietzsche era un fascista? E poi che cosa s’intende nell’articolo usando il termine “fascismo”? Il fascismo italiano (mussoliniano)? O il nazismo (per il fatto che quest’ultimo è una forma di fascismo)? O tutti e due?
    Il fascismo è un movimento politico la cui vocazione è la concretizzazione di un regime caratterialmente totalitario, i cui confini inizialmente coincidono con i limiti territoriali di uno Stato perché fungono da chiave preparatoria del suo volto imperialistico-planetario. L’indole del fascismo, infatti, è l’attuazione del dominio di un uomo solo su tutto il globo. Il fascismo prende vita in Italia nel 1919 ad opera di Mussolini e il nome deriva dal “fascio littorio”, simbolo del potere dell’antica Roma, una chiara immagine che la concezione politica cui il fascismo si ispira è quella dell’Impero Romano. Con il termine “fascismo” si è soliti definire movimenti e regimi politici analoghi al fascismo italiano, “analoghi” in quanto, direttamente e non, si sono ispirati a questo. Per ricordarne alcuni, basti pensare all’Estado Novo di Salazar in Portogallo; alla Falange spagnola di Franco in Spagna; all’Unione nazionale norvegese di Quisling in Norvegia; e, naturalmente, al Nazionalsocialismo tedesco di Hitler in Germania. Il fascismo italiano fu un movimento privo di una vera e propria ideologia fino al 1925, anno in cui Gentile scrisse il Manifesto degli intellettuali del fascismo, una prima sistematizzazione dell’ideologia fascista. Gentile si ispirò ad Hegel (passando per Spaventa) e a Marx.
    Nietzsche morì fisicamente nel 1900 ma mentalmente nel 1889, quando lo colse la pazzia. Prima di queste due morti, Nietzsche viaggiò molto e soggiornò più volte in Italia. Ma il tempo in cui ciò avvenne, naturalmente, è antecedente alla sua duplice morte – si trovava a Torino quando lo colse la pazzia – ed è estremamente lontano dal tempo della nascita del fascismo. Se bisogna parlare di un “costruttore del cuore del fascismo” e se proprio non si vuole guardare all’Impero Romano (che ne è soltanto l’ispiratore), si guardi a Gentile (ispiratosi a Hegel e a Marx) e non a Nietzsche il quale, per “forza di morte” e “a causa di una evidente distanza temporale”, non era in condizioni di costruire direttamente e volontariamente il cuore di questa ideologia. Se nella frase “Nietzsche non fu il precursore ma il costruttore del cuore del fascismo”, con il termine “fascismo” s’intende non quello italiano ma quello tedesco, dunque il nazismo (nazionalsocialismo); o se s’intende sia quello italiano sia quello tedesco e si afferma “silenziosamente” che Nietzsche ha costruito indirettamente e involontariamente queste ideologie, allora le chiedo, caro Torno (o caro Giametta, nel caso in cui la frase in questione provenga da lei): è sicuro che tale affermazione corrisponda a verità? È sicuro che Nietzsche abbia costruito il cuore dell’ideologia fascista (italiana e tedesca), in modo indiretto e involontario? E se si sbagliasse? Se si provasse che non è proprio così (ed è già stato fatto, basti pensare per esempio ad Heidegger e a Penzo)? Che figura farebbe? Non sarebbe il caso di metter mano a un’errata corrige e di iniziare a pensare a Nietzsche al di là di destra e di sinistra?

    Disponibile il N°0 della Rivista Agoghé da scaricare gratuitamente dal web

    Il Progetto Agoghé è un'idea partorita da un gruppo di giovani accumunati dal piacere eretico della scrittura. Sul finire dell'Agosto 2010 abbiamo creato un blog – http://agoghe.blogspot.com – il cui fine è coinvolgere tutti i ragazzi dai quindici ai venti anni interessati a dire la propria su qualsivoglia argomento, senza condizionamenti di carattere politico o religioso, ma attenendosi al solo rispetto dell'altrui diversità, evitando di offendere chicchessia o checchessia.
    La buona riuscita di questo folle esperimento, gli elogi giuntici in redazione e la pubblicazione dei nostri articoli promossa da portali di rilevanza nazionale, ci hanno infine convinto a continuare ad osare, proponendo ai nostri lettori, in forma assolutamente gratuita e liberamente scaricabile dal web, una rivista che funga da summa dei brani, pubblicati sul nostro blog, più graditi dai lettori.



    Chiunque sia interessato a collaborare, partecipando della follia che anima il mondo di Agoghé può scrivere a progettoagoghe@hotmail.it.
    Potete esprimere opinioni, redigere brani giornalistici, saggi, poesie o racconti, pubblicare video musicali, tutto ciò che avete da dire, da fare o da scrivere può essere divulgato attraverso questo modesto spazio.
    L'idea di fondo è quella di individuare, valorizzare e coordinare le opinioni, le proposte e le prospettive dei giovanissimi, cercando possibilmente di stimolare un dibattito costruttivo sul futuro di tutti noi.

    sabato 18 settembre 2010

    Relativismo e Laicismo: gli spauracchi del cattolicesimo

    di Natale Zappalà

    L'Inghilterra si oppose eroicamente al nazismo, non ceda al laicismo”.
    Benedetto XVI, 16/09/2010

    A parte l'inopportunità di un paragone che accosta la barbarie ed il sangue versato dai nazisti ad una libera corrente di pensiero non violento, perché mai il pontefice massimo pone al centro di molte sue dichiarazioni pubbliche la necessità di scongiurare il laicismo? E perché mai, attraverso encicliche, discorsi o interviste, il vescovo di Roma attacca a più riprese il relativismo quale segno tangibile della degenerazione morale della società?
    Il papa, oltre ad essere un capo di stato a cui preme la sopravvivenza dei suoi domini temporali, rimane soprattutto la guida spirituale incontrastata di una religione di carattere esclusivista (cioè che non accetta la coesistenza con altre confessioni, ritenendosi essa depositaria, per rivelazione, della verità universale), la quale non può permettersi di scomparire dalla vita pubblica.
    Il laicismo ed il relativismo minano il prestigio, l'autorità, l'influenza e la centralità della Chiesa Cattolica all'interno dei singoli stati e – si veda più avanti – soprattutto in Italia.
    Il relativismo gnoseologico o conoscitivo è un concetto di antichissima formulazione, ben più remoto nel tempo delle fatidiche “radici cristiane di Europa”, che risale ai presocratici, per poi definirsi compiutamente nel razionalismo cartesiano e nella grande stagione dell'Illuminismo. Senza andare ad elencare le singole posizioni filosofiche, il relativismo gnoseologico asserisce, in buona sostanza, che la conoscenza si basa su criteri unicamente soggettivi e dipendenti dalle naturali diversità ed individualità degli esseri viventi.
    Le religioni, come quella cattolico-romana, pretendono invece di fornire misure oggettive ed universali entro cui racchiudere la verità dell'esistenza. Ecco spiegata l'avversione del pontefice tedesco al relativismo: esso mette in discussione quei principi e quei rituali collettivi sui quali è edificata l'impalcatura ideologica della comunità ecclesiale. Non sarà superfluo precisare che, dietro l'apparentemente generica denominazione di “relativismo”, si cela in realtà la condanna del contesto storico-culturale che fece della lotta all'autoritarismo ed all'oscurantismo dogmatico il suo caposaldo, l'Illuminismo. Come si potrebbe altrimenti attaccare una categoria oggetto di obbligo didattico? Meraviglie della retorica!
    Il laicismo è un atteggiamento ed una corrente di pensiero che mira alla separazione coerente e giuridicamente fondata fra stato e religione. Esso discende dalle dottrine lockiane sulla tolleranza confessionale, oggi centrali nelle moderne legislazioni europee, e dall'esigenza di regolamentare e consentire la coesistenza di diverse religioni all'interno di un paese.
    La religione del singolo, dettata da una scelta volontaria ed intimistica fatta dall'individuo stesso, non interessa minimamente allo stato, a meno che essa non giunga a turbare l'ordine pubblico e la concordia civile. Un'idea che sconvolge e confuta l'utopia, prettamente religiosa, di costituire uno “stato etico”in grado di “educare” i suoi cittadini; uno stato-laico ha invece il compito essenziale di tutelare il complesso delle persone e dei beni dei quali si compone.
    Il problema, dal punto di vista papale – si ricordi che il pontefice massimo è ancora un sovrano teocratico (la teocrazia è una forma di governo in cui il potere politico è dettato dalla religione) – è che uno stato laico, laddove applicasse effettivamente la legge, escluderebbe la religione, in questo caso il cattolicesimo, dalla vita pubblica. In Italia, le continue ingerenze da parte delle autorità ecclesiastiche dimostrano che la laicità statale rappresenta ancora un obiettivo da raggiungere compiutamente.
    La lunga durata della teocrazia papale nella storia della penisola, non importa se realizzatasi mediante false documentazioni (si pensi alla Donazione di Costantino, un documento assolutamente inautentico sul quale si fondava la legittimità del potere temporale dei papi sull'Occidente), violenze e sotterfugi, ha determinato una forte influenza del Vaticano sui governanti italiani, un'attrazione ancora magnetica agli inizi del Terzo Millennio, con buona pace di Locke, Voltaire e di tutti i passati sostenitori del motto “libera chiesa in libero stato”.
    La prevalenza della Chiesa Cattolica in Italia ai danni delle altre confessioni religiose risulta evidente dalla lettura della stessa legge che ne regola i rapporti con la Repubblica. L'art. 3 della Costituzione stabilisce che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (…)».
    Fin qui, tutto bene, sebbene la prevalenza del cattolicesimo ai danni delle altre religioni è esplicitata dagli articoli 7-8 (si ricordi che nella Costituzione Italiana, in merito alla legislazione confessionale, si trova un “copia ed incolla” del Concordato del 1929 fra Mussolini e la Santa Sede, poi aggiornato in base agli accordi del 1984 fra Craxi ed il cardinale Casaroli):

    «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale».

    «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze».

    Dunque tutte le religioni sono uguali e con eguale diritto alla libertà di culto davanti alla legge, ma, per dirla alla Orwell, quella cattolica “è più uguale delle altre”, gode di privilegi maggiori rispetto alle altre. C'è di più: essendo il Concordato un trattato internazionale fra due stati (l'Italia e la Città del Vaticano), ne consegue che non è giuridicamente possibile modificare od abrogare gli articoli 7-8 tramite un referendum (ci tentarono i Radicali nel 1978, senza esito); pertanto un un'iniziativa in questa prospettiva deve essere presa giocoforza o dalla Chiesa Cattolica, o dai parlamentari italiani, secondo i farraginosi iter burocratici che disciplinano le modificazioni o le abrogazioni al testo costituzionale.
    Tornando al nostro discorso, in conclusione, si può affermare che laicismo e relativismo sono gli spauracchi della Santa Sede, i nemici da combattere con priorità. Ciò nonostante il vertiginoso calo delle vocazioni, le cospicue statistiche relative agli abbandoni del cattolicesimo (richieste di apostasia, ossia la richiesta di cancellazione dei dati personali dagli archivi ecclesiastici), gli scandali finanziari, i reati sessuali dei chierici, e molto altro di più rilevante da affrontare.
    Non siamo in grado di spiegare esaurientemente tale atteggiamento apparentemente autolesionista assunto dalle autorità cattoliche, ma, certamente, la lettura di queste poche righe può aiutarci a comprendere che la possibilità di mantenere il controllo delle coscienze vale più di un sincero perseguimento degli ideali umanitari e pacifisti, pur alla base del credo cristiano delle origini.

    mercoledì 15 settembre 2010

    Scuola, precariato: Omicidio di Stato. Una riflessione

    di Saverio Verduci

    Non avremmo mai voluto dare e sentire una notizia del genere, ma nonostante ciò nessuno si indigna! 
    E' la tragica, triste realtà che oramai da tanto tempo si trascina in Italia, o meglio dire da quando nel nostro paese si è deciso di imbavagliare la cultura e di porre la scuola e la pubblica istruzione in genere sotto regime, oserei dire quasi dittatoriale. 
    E' la triste, tragica, disperata scelta di una persona, un collega, che dopo avere speso gli anni migliori della propria vita a studiare, a credere nella cultura, a contribuire a far nascere cultura, di colpo e nel nome di un gruppo di persone rappresentati, ma solo rappresentati e nulla di più, da una tizia che si professa prodiga “salvatrice della cultura e della scuola italiana” ha visto crollare e volatilizzare nel nulla ogni suo sogno, ogni sua speranza, ogni sua aspettativa negate proprio dall’utilizzo scellerato e criminale che si è fatto e si sta continuando a fare, di quella cultura e di quella ricerca della quale questo giovane era innamorato e alla quale questo giovane aveva dato tanto… 
    E’ la triste realtà contro la quale hanno lottato e stanno continuando a lottare tanti giovani studiosi, ricercatori, professori PRECARI del nostro paese nel più totale e assoluto silenzio dei media nazionali e dei sindacati di categoria che mai, se non in qualche rara occasione e solo per circostanza e nient’altro, hanno affiancato queste persone…già come se essere precario ed essere utilizzato all’occorrenza e poi gettato nel cestino, nel nostro paese debba costituire la regola e non una grave anomalia di un sistema, quello della pubblica istruzione, assolutamente mal gestito e ridotto “alla non istruzione”. 
    E’ la storia di un giovane dottorando in “filosofia del linguaggio” presso la facoltà di lettere dell’Università di Palermo che aveva conseguito la laurea in “filosofia della conoscenza e della comunicazione” riportando la votazione di 110 e lode che ieri in un momento, forse uno dei tanti momenti che purtroppo ognuno di noi PRECARI conosce bene, ha compiuto un gesto estremo, quello di lanciarsi da un terrazzo della stessa facoltà di lettere morendo sul colpo…Già quella stessa facoltà che lo aveva visto crescere culturalmente e che in questo triste momento gli aveva tolto, per ragion d’altri, la speranza, la sola speranza di credere in un futuro. 
    E’ la storia di Norman Zarcon di 27 anni che prima di lasciarci ha lasciato scritto: "La libertà di pensare è anche libertà di morire. Mi attende una nuova scoperta anche se non potrò commentarla". Parole che fanno rabbrividire e al contempo riflettere sulla triste realtà che sta travagliando la cultura e il sapere del nostro paese e noi tutti siamo costretti ad assistere impotenti difronte alla distruzione di tutto ciò.

    Pubblicato su www.costaviolaonline.it

    lunedì 13 settembre 2010

    Silenzio in stampa

    di Francesco Denaro

    Nel 1964 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò che la stampa ha il dovere di criticare i politici. Ispirandosi al Primo Emendamento della propria Costituzione (non sono ammessi limiti alla libertà di stampa quando si tratta di pubblico interesse), i giudici ribaltarono il verdetto di condanna per diffamazione inflitto ai giornalisti del New York Times, spiegando che un redattore può essere punito solo se è consapevole di pubblicare notizie false. Di fatto, il giornalista diventò il cane da guardia della democrazia. In Italia, invece, per passare da cane da guardia della democrazia a cane da guardia del potente il passo è breve: basta girare le spalle alla morale e all'etica. Alcuni direttori, cronisti, commentatori hanno deciso che stare dalla parte del padrone – che spesso coincide con la figura del loro editore – è più proficuo.

    I grandi maestri del giornalismo hanno sempre sostenuto e insegnato che la regola numero uno per diventare un buon giornalista è fare domande scomode a personaggi scomodi. Nel corso degli anni, tuttavia, sembra che questa norma si sia trasformata in: "se vuoi lavorare in una redazione devi leccare il sedere a qualcuno". Chi ha applicato alla lettera questo criterio è il Tg1.

    Da circa un anno – cioè da quando si è insediato il nuovo direttore (Minzolini) – guardando il Tg1 si assiste a continui black out riguardanti notizie scomode, a mezze verità e a interminabili servizi su costume e animali. Questo ha comportato un notevole calo negli ascolti (dal 32,79 per cento del 2006 al 27,5 per cento di oggi) che è costato al Tg1 lo status di "tg di riferimento per gli italiani". Ma non è tutto. Da un’inchiesta giornalistica – fortunatamente è rimasto chi ancora fa’ il proprio lavoro – sono emerse delle intercettazioni telefoniche riguardanti proprio il direttore Minzolini intento a rassicurare un politico sulla propria fedeltà. Applicando "la regola", il telegiornalista Giorgino – che adesso conduce l'edizione delle 20:00 – approntò una lettera di sostegno per il direttore, dove si dichiarava che nonostante tutto la redazione lo sosteneva. Non parteciparono alla farsa – dunque non firmarono – numerosi mezzibusti "famosi" tra cui Tiziana Ferrario, Paolo Di Giannantonio e Maria Luisa Busi. I tre entrarono in aperto contrasto con Minzolini sottolineando che durante un Tg è assurdo leggere una nota di quattro righe sui cassaintegrati che scioperano all'Asinara e poi fare tre minuti di servizio sui cigni islandesi. Questa precisazione – ma sopratutto la mancata firma di sostegno – è costata cara ai dissidenti, i quali sono stati rimossi dai propri incarichi. Alle numerose polemiche piovutegli addosso a causa di queste epurazioni, il "direttorissimo" si è giustificato asserendo motivi anagrafici (peccato che la carta d'identità sia valsa solo per chi non aveva apposto la firma).

    La situazione della carta stampata, a ben vedere, è anche peggiore. Quasi tutti i quotidiani che si trovano in edicola usufruiscono dei finanziamenti dello Stato. Nel 1981 fu varata una legge che riconosceva aiuti economici ai giornali di partito incapaci di sostenersi da soli. Nel 1987 la legge cambiò: se due deputati affermavano che il giornale x è un organo di un movimento politico, anch’esso può servirsi dei finanziamenti. Nel 2001 avvenne l’ennesimo ritocco alla legge: per essere finanziati, bisognava diventare una cooperativa. Attualmente, a causa di queste leggi, si spendono 667 milioni di euro all'anno per finanziare molti giornali, nonostante la maggior parte di essi non ne ha bisogno perché guadagna abbastanza sia dalla pubblicità sia dalle vendite. Ma questa è un altra storia.

    Con tutti questi milioni in ballo, quali linee editoriali adottereste se voi, cari lettori, foste i proprietari di alcuni giornali? Sicuramente non attacchereste chi vi tiene in pugno, minacciandovi a ogni occasione di levarvi i finanziamenti. Vi operereste, anzi, a nascondere, a tagliare o a far semplicemente finta che una notizia non ci sia. Quale imparzialità ci si può aspettare da questi giornali? Quale verità dovrebbero svelare? Se per assurdo s’immaginasse che le notizie non siano pilotate dalla venalità, il risultato non cambierebbe perchè la maggior parte della carta stampata è sotto controllo politico. Ad esempio Libero e Il Riformista appartengono a un senatore; Il Giornale è del fratello del Presidente del Consiglio; L'Unità, Il Manifesto, Il Secolo sono tutti giornali di "partito" – e se ne potrebbero citare tanti altri che appartengono a questa fattispecie.

    Nelle maggiori democrazie liberali le regole del gioco sono chiare: la selezione delle classi dirigenti viene demandata all'opinione pubblica. L’elettore, quindi, avrebbe il diritto di sapere tutto sul proprio candidato per poi sceglierlo o bocciarlo al momento del voto. Ma in un paese come l'Italia, dove la fonte principale d'informazione è costituita dalle tv e dai giornali – cioè da quella stampa condizionata dagli interessi e dalle paure sopra citate – questo diritto viene palesemente meno. La cosa preoccupante è che il modo di fare informazione degli ultimi tempi è considerato la normalità. Non servono a nulla gli International Journalism Festival che rivendicano la libertà di stampa, se poi ai giovani presenti non si spiega il modo di fare giornalismo. Era un festival "internazionale" ma non c’erano – e nemmeno si è parlato – di personaggi come Carl Bernstein (Premio Pulitzer nel 1973 "per il Servizio Pubblico", grazie all'inchiesta giornalistica che svelò i retroscena dello scandalo Watergate, che spinse il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni) o Malcolm Browne (Premio Pulitzer nel 1964 per i reportage dal Vietnam). In compenso, però, c'erano i "professionisti" dei tg.

    La verità è che i mezzi d'informazione sono diventati uffici stampa di politici-padroni e spacciatori di notizie inutili, inconsapevoli (forse) che in questo modo uccidono la libertà di parola. Dai media sentiamo ripetere sempre i soliti slogan ("libertà di stampa e di espressione") i quali, alla fine, si rivelano paurosamente simili a quelli di Orwell in 1984 ("La guerra è pace e L’ignoranza è forza").

    Otterremo la vera libertà di stampa solo quando smetteremo di dare soldi alla stampa. Perché un editore o è libero da qualsiasi vincolo politico-economico o non è un editore. È semplicemente un uomo d’affari e non c’entra nulla con il principio della libertà di espressione così com’è sancito dall’art.21 della nostra Costituzione:

    «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».

    venerdì 10 settembre 2010

    La Coerenza, questa sconosciuta

    di Natale Zappalà

    Una moltitudine di pecore sceglie sempre di seguire il pastore a testa bassa: le pecore rappresentano un'allegoria della maggioranza dei giovani di oggi, mentre il pastore, scelto meticolosamente fra coloro che ne possiedono i requisiti minimi dettati dai tempi – bella presenza, ignoranza, melducazione od ineducazione, una certa predisposizione ad infrangere le regole – è il primus inter pares fra le bestie da soma, la volontà decisionale che si cela dietro la proposta di assecondare qualsivoglia iniziativa, purché sia conforme alle mode vigenti.
    Con ciò si ha la consapevolezza di generalizzare: ma sono le stesse statistiche societarie ad imporre una lettura schematizzante e tristemente deleteria del fenomeno giovanile. Dunque, generalizzare risulta il modo migliore per documentare queste realtà.
    Ecco un esempio indicativo al fine di comprendere la questione: in una classe scolastica media ci sono uno/due anomalie, ossia i ragazzi seri, studiosi, coerenti e concreti, inevitabilmente emarginati dalla massa modaiola che tende a schernirli poiché, velatamente, li teme; uno/due bulletti pacchiani e rozzi, vestiti all'ultimo grido, la cui banalità è direttamente proporzionale al successo che riscuotono fra i coetanei, che d'ora in poi verranno chiamati “sovrani-imbecilli”; infine, la fazione più triste ed imbelle dell'insieme, quei diciotto/venti indecisi, i partigiani silenziosi ed ossequiosi dei “sovrani-imbecilli” precedentemente citati.
    Quando il “re-imbecille” propone qualche scemenza – “Ci vediamo stasera, tutti nudi, nel boschetto vicino la scuola”, ad esempio – il corteo dei fessacchiotti che ne compone il seguito esegue prontamente l'ordine.
    Qual è il problema? Sono 'ggiofani, si devono divertire!
    Il problema, dando per scontata l'assoluta irrecuperabilità dei “sovrani-imbecilli” – molti di loro finiranno, nella peggiore delle ipotesi, a fare i tronisti di Maria De Filippi, mentre qualcuno di essi, chissà, potrebbe persino diventare ministro della repubblica – è costituito dalla massa volubile dei fessacchiotti. Nella quasi totalità dei casi, essi non hanno né padronanza né convinzione del concetto di divertimento, fanno qualcosa perché qualcuno, apparentemente più astuto o più affascinante di loro, la sta facendo a sua volta; perché, se non la facessero, rischierebbero l'impopolarità o, peggio ancora, gli sfottò; o perché, semplicemente, lo fanno tutti.
    L'oggetto della disamina, quindi, è il blocco compatto di idioti, i quali, una volta sfuggiti alla dittatura scolastica dei “re-imbecilli”, finiranno per acquistare i prodotti propagandati dalla pubblicità, per votare indifferentemente per l'uno o per l'altro candidato sulla base di dettami clientelistici, per guardare partite e reality, spendendo vagonate di euro in sms coi televoti.
    Esiste un rimedio valido affinché un ragazzo riesca ad evitare di trovarsi nel blocco dei fessacchiotti? Certamente sì.
    Si parta dal presupposto aristotelico dell'uomo quale “animale-razionale”, cioè dotato di capacità di ragionamento ed, al tempo stesso, esposto alla tempesta degli istinti. Se, prima di agire, ogni individuo tentasse di conciliare gli impulsi con la ragione, ne risulterebbero dei comportamenti coerenti. La coerenza altro non è che la sintesi coscienziosa fra ragione ed istinto, ovvero la grande assente ingiustificata dell'universo giovanile contemporaneo.
    Ogni decisione andrebbe presa sulla base di un'opportuna riflessione mediata dalla scala di valori che ognuno, relativamente, possiede; inoltre, quando tale decisione rispecchia la libera volontà e il piacere del singolo, oltre a costituire un atto di coerenza, raramente si tratterà di un'azione sgradita o coercitiva.
    Naturalmente, la coerenza, all'interno di un ambiente ovattato come quello dei giovani di oggi, rischia di apparire impopolare, specie perchè, di norma, quando qualcuno si azzarda a mettere in discussione delle costruzioni fragili ma presentate come solide, quali le logiche di massa del XXI secolo, egli finisce per minare seriamente il reame dei “sovrani-imbecilli”. Chiaramente, una persona coerente, come quegli uno/due ragazzi seri che si trovano, talvolta, all'interno di una classe-tipo odierna, può infischiarsene volentieri di mode, falsi cameratismi, logiche del branco e “sovrani-imbecilli”, preservando la sua dignità e la sua libertà.
    In definitiva, cari ragazzi, evitare di sputare allo specchio ogni mattina è semplice, se ognuno di voi provvede a creare o a rispolverare una scala di valori (un valore è qualcosa a cui dare priorità, una serie di valori rappresenta la spina dorsale della vostra esistenza), a scegliere con cura le persone importanti della vostra vita (secondo un celebre proverbio meridionale, “accompagnatevi con persone migliori di voi e pagategli le spese”), in modo da difendere costantemente la vostra inalienabile capacità di pensare ed agire senza condizionamenti o indottrinamenti di qualsivoglia natura.
    Tutto il resto – politiche, religioni, pubblicità, mass-media o “sovrani-imbecilli” – sovente, è solo un cumulo di palliativi volti a sopraffare il libero pensiero del singolo, affinché coloro che comandano – politicamente, economicamente, religiosamente o culturalmente – riescano ad assicurarsi il controllo della volontà collettiva.

    domenica 5 settembre 2010

    Locke e l'idea di laicità dello Stato



    di Natale Zappalà

    Affermiamo oggigiorno di vivere all'interno di uno stato laico, seppure tale percezione sia sovente contraddetta o sminuita sia dalle reiterate ingerenze da parte delle autorità religiose, sia dalla disinformazione imperante che identifica la communis opinio circa l'idea di aconfessionalità diffusa in Italia.
    Quali sono le radici storiche del concetto di laicità dello stato?
    Occorre risalire all'epoca della Glorious Revolution inglese (1688), quando John Locke (1632-1704) redigeva la sua Lettera sulla tolleranza (1689), per vedere codificati compiutamente i principi di aconfessionalità oggi in vigore presso gli ordinamenti statali moderni.
    Erano tempi in cui l'Europa continentale si divideva ancora fra la teocrazia papale e i tanti monarchi assoluti tali “per grazia divina”, mentre la diffusione del Protestantesimo infiammava le guerre di religione, autentici bagni di sangue laddove il motivo fideistico nascondeva le più pragmatiche cagioni legate alla ricerca di potere e ricchezza. “Cuius regio, eius religio”, la Pace di Westfalia (1648), sottoscritta dai principali sovrani europei, aveva riaffermato l'obbligo, da parte dei sudditi, di professare lo stesso credo dei loro governanti.
    La stessa Inghilterra, a partire dallo Scisma di Enrico VIII e dalla conseguente nascita della Chiesa Anglicana, era stata dilaniata dai conflitti religiosi, sino al quasi incruento colpo di mano passato alla Storia con la denominazione di “Rivoluzione Gloriosa”, la deposizione della dinastia Stuart a favore di Guglielmo d'Orange, evento che coincise con l'adozione dell'attuale forma di monarchia parlamentare, allora avanguardia giuridica del mondo conosciuto.
    In questo contesto, Locke scrisse la Lettera sulla tolleranza, i cui principi-cardine sono tutt'oggi fondamento di ogni ordinamento statale laico, dalla Costituzione USA del 1787 sino ai più moderni corpus legislativi; un documento il cui fine immediato coincideva con la necessità di salvaguardare l'esistenza della Chiesa Anglicana dai tentativi di restaurazione cattolica e prevenire l'insorgere di ulteriori conflitti di natura religiosa.
    L'idea-base dello scritto lockiano si individua nella depoliticizzazione della religione in qualità di scelta volontaria dettata dalla volontà personale ed intimistica del singolo.
    La religiosità dei singoli non può e non deve interferire con lo Stato, a meno che essa non arrivi a turbare la concordia civile: un concetto di una semplicità sconvolgente e rivoluzionaria, e per questo svincolato da qualsiasi tentativo di distorsione o strumentalizzazione, seppure non manchino, ancora ai nostri giorni, delle ripetute ingerenze nella vita pubblica da parte degli esponenti delle più seguite confesssioni religiose.
    Da Locke discende inoltre un'altra concezione di ampia portata, consistente nella demolizione dello “Stato Etico”, cioè quell'utopico ordinamento che aveva la pretesa di “educare” i cittadini, tanto vagheggiato da certa letteratura; nell'accezione lockiana, diversamente, lo Stato non si arroga dei compiti morali nei confronti dei cittadini, ma alcuni e più realistici obiettivi inerenti il mantenimento della sicurezza delle persone e dei beni che compongono la società civile nel suo complesso.
    Tali sono le radici storiche dell'idea di laicità statale: qualsiasi discussione in merito dovrebbe essere vanificata dalla chiarezza stessa dell'argomento. Eppure, se ne dibatte ancora; evidentemente, non tutti hanno compreso Locke o, semplicemente, non tutti sanno che la lezione del filosofo inglese risulta oggigiorno alla base della Legge al quale i cittadini devono riservare obbedienza.

    In foto, il filosofo inglese John Locke

    sabato 4 settembre 2010

    Cambiare con semplicità



    di Stefania Guglielmo



    Si parla tanto di un cambiamento duro ma necessario, di una società che elemosina questo cambiamento e che, nonostante ciò,  ha poche possibilità di attuarlo.
    Ma che cos’è davvero il cambiamento? Come e da dove può svilupparsi?
    Voltare  pagina appare così difficile, tanto superficiale è questo mondo. Siamo pieni di osservatori rassegnati e di teorici superbi, anche se, in fondo, cambiare non è poi chissà quale ostico processo!
    Il cambiamento di una società non è altro che il cambiamento di ogni semplice individuo, proprio perché il costume di una società è l’insieme delle abitudini dei suoi individui. Nella nostra di società, spesso definita molto malata, gli individui sono affetti principalmente dalla dimenticanza di essere tali. Pochi ricordano,  infatti,  di avere pieno potere di sé, pochi ammettono di essere unici ed irripetibili e non per questo sbagliati, ed altrettanto scarsi sono quelli che si affidano al loro senso di giudizio, ma al contrario si arruolano nelle categorie di un esercito di finti felici. Tra questi, chi, poi, non si arruola, sembra destinato alla solitudine.
    Metaforicamente è il medesimo il quadro designato da molti: tanti gruppi di affetti e poche eccezioni. Ma perché il cambiamento risulta necessario?
    Al di là di ogni moralismo od etica acquisita, il cambiamento è necessario poiché, all'interno delle categorie che ci si sceglie, nessuno sembra essere realmente felice. Tutti, convivendo con un comune senso di vuoto, tentano di convincersi che esso, come l’abitudine di possedere, in ogni circostanza,  il retrogusto di un’ironica tristezza, coincida con la realtà del nostro essere e sia quindi da accettare.
    In verità, per quanto ci si sforzi di scordare di essere dei singoli, ognuno di noi ha a che fare  con un intimo senso interno, più o meno sviluppato. Proprio lì, infatti, dove ci troviamo tristemente o sorprendentemente soli, c’è qualcosa, la si chiami voce, la si chiami coerenza o la si chiami cuore, è qualcosa di duramente non ignorabile che spesso ci ostiniamo ad ignorare.
    Il cambiamento sta nella semplicità di questo nostro punto di forza, nella semplicità di essere ciò che si è davvero, di esistere come individui e non di sopravvivere sottostando a qualcuno di più sicuro, o alle condizioni che, talvolta, il mondo ci impone. il cambiamento sta nella semplicità di confrontarci con noi stessi e con gli altri, sta nella semplicità di vivere comunicando, divertendosi e rimanendo sempre coscienti e volenti di ciò che si è.

    venerdì 3 settembre 2010

    Il “politichese”: istruzioni per il disuso

    di Natale Zappalà

    La sofistica viene da molti considerata una dottrina negativa per via della particolare utilità che essa attribuisce alla retorica, vera e propria arte del convincimento e del condizionamento di una platea mediante i discorsi, il tutto ai danni della verità, considerata irrimediabilmente soggettiva.
    Se tale principio utilitaristico rappresenta certamente una visione parziale e capziosa del pensiero sofista – cui si deve, fra le altre cose, una delle prime definizioni esaustive del concetto di relativismo culturale – non si può negare che le capacità persuasive affidate all'oratoria ne facciano un illustre antenato del “politichese”. Una nota azienda informatica ha pensato persino di inventare una sorta di traduttore simultaneo che crea e converte frasi dal linguaggio corrente al “politichese”, quale meraviglia della tecnologia!
    Capita spesso, ai nostri giorni, di sentir rivolgere, nel corso di un'intervista o di un dibattito, ad un dato politico, la seguente domanda-standard: “Cosa ne pensa, signore, delle fave?”; al che, il politico-medio risponde con una prolissa ed ampollosa apologia di tutti i legumi, tranne ovviamente le fave. Ecco spiegato agevolemente cosa si intende per “politichese”, neologismo coniato negli anni '50 del '900 per designare le peculiarità oratorie dei governanti italiani; tuttavia, il fenomeno, al di là delle denominazioni specifiche, risale alla creazione dello stato e dei suoi rappresentanti, da millenni a questa parte.
    La buona riuscita del suddetto metodo ostruzionistico, antagonista della verità e dell'immediatezza comunicativa fra gli individui, dipende dal livello di intelligenza, di concentrazione e di cultura del pubblico. Generalmente, le masse tendono a confondersi dinanzi alla disordinata mole di chiacchiere sciorinate per eludere o aggirare una domanda semplice, occultandone le vere risposte, sino a deviare rispetto l'obiettivo indagatorio originario della stessa.
    Esemplificando, si provi a chiedere ad un amico, davanti a testimoni, l'ora esatta; se il nostro amico proromperà in un lungo e noioso excursus sull'aumento del costo unitario di un hamburger da parte di una nota catena di fast-food, il risultato consisterà, in primis, nell'aver nascosto a tutti l'orario ed, in secondo luogo, ad innescare negli astanti un'irrefrenabile voglia di mangiare immediatamente un panino, con tanti ringraziamenti all'amico ciarlatano, fonte della benemerita trovata alimentare.
    Limitandosi all'affare del panino, il “politichese” non dovrebbe essere così dannoso per la società. Ma quando, al posto dell'hamburger, si risponde evasivamente in merito ai problemi rilevanti della gente comune, l'effetto è un altro.
    Disgraziatamente, il “politichese” è un sistema vecchio quanto il mondo e, le soluzioni adatte ad arginare il fenomeno sono poche e vanno costruite con pazienza, studio e criticismo. Come dire, si parla di ceci se la domanda riguardava le fave? Allora, democraticamente e meticolosamente, si dimostri che l'oratore di turno si sta arrapicando sugli specchi.
    Purtroppo, si attende sin dai tempi dell'Illuminismo la nascita di una civiltà la cui maggioranza dei membri non sia influenzabile dal “politichese”, ed ormai tale speranza sembra sconfinare sempre più nell'utopia. Sono pochi quelli che mantengono gli occhi aperti e i sensi all'erta, mentre molti si lasciano abbindolare dalle chiacchiere, relative al mondo della politica, al sistema mediatico ed alla pubblicità. Fino a quando? Ai posteri l'ardua sentenza.