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sabato 24 dicembre 2011
giovedì 1 dicembre 2011
Religione? Scienza? O entrambe?
di Manlio Adone Pistolesi
I primi
uomini dovettero affrontare varie difficoltà. Alcuni fra i più noti
filosofi greci e romani si interrogarono sul perché Dio non ci dotò
di artigli, zanne, velocità ecc... Ma oggi, dopo una breve
evoluzione, possiamo rispondere dicendo che Dio ci ha dotato
dell'intelligenza, la quale ci ha permesso di dominare il mondo
conosciuto fino ad ora. Proprio l'intelligenza é una delle
caratteristiche che ci contraddistingue dagli animali. All'inizio
però, forse per la paura che i nostri antenati avevano verso
l'ambiente circostante, l'unica spiegazione che il nostro intelletto
poteva dare riguardo i fenomeni naturali fu la manifestazione di
qualche essere soprannaturale: gli dei.
Dall'Africa
alle Americhe, dall'Oceania all'Eurasia ogni popolazione aveva i
propri dei, con diversi poteri e caratteristiche. Le prime religioni,
che credevano in una pluralità di dei, erano solo dei tentativi da
parte del nostro cervello di spiegare fenomeni all'apperenza strani e
pericolosi: tempeste, terremoti, esplosioni vulcaniche, frane ecc....
Le diverse poleis
greche, in particolare, consideravano la loro religione politeista un
esempio di civiltà. Infatti le loro divinità, con sembianze umane,
dovevano rispiecchiare la "società-tipo" greca. Non
dobbiamo però dimenticare che ogni dio aveva i suoi difetti, che a
loro volta rappresentavano le pecche del genere umano.
Uno "strappo
alla regola" fu attuato da una piccola nazione, esistente ancora
oggi. Il popolo israelita all'epoca differiva dalle altre popolazioni
residenti in Asia minore soltanto per via della religione: essi
credevano in un solo Dio, Jahvé. Ma questo piccolo Stato fu presto
conquistato dalle popolazioni confinanti, gli israeliti furono
costretti alla diaspora,
ovvero ad una dispersione.
Tornando ad
oggi, si nota una netta prevalenza delle religioni monoteistiche, che
professano la credenza in un unico dio. Quindi, come tutto ciò che
conosciamo, anche la religione ha avuto una sua "evoluzione".
Ma come é
arrivata fino a noi la religione monoteista? Con la conquista romana
del Medio Oriente tutte le popolazioni che prima si erano combattute
una contro l'altra ora si trovano sotto la stessa bandiera: le guerre
non sono più necessarie, anche perché Roma trattava gli stati
conquistati con una certa tolleranza per evitare che un'ipotetica
ribellione interna causasse il tracollo dell'impero, come era
successo agli Assiri qualche migliaio di anni prima. Gli ebrei che
erano rimasti cercarono di diffondere la loro dottrina ma senza
successo dato che erano circondati da pagani. La religione
cristiano-cattolica crede nella venuta di un Messia, Gesù Cristo, il
figlio di Dio, che ha eliminato il peccato originale.
Questa nuova
religione conquistava il mondo intero con i suoi ideali e le sue
promesse, ma allo stesso tempo eliminava le religioni pagane che
dall'inizio avevano influenzato la concezione umana della natura. Ciò
aprì tuttavia anche una nuova strada, meglio conosciuta come
Scienza. Infatti, se ora la religione spiegava che esisteva un solo
Dio, molti eventi e fenomeni naturali rimanevano senza una
spiegazione "logica". Un esempio è costituito dai
temporali, che secondo gli antichi erano scaturati dal martello del
dio vichingo Thor, oppure le eclissi lunari e solari, provocate dalle
fauci di un enorme lupo nel cielo che inghiottiva i due astri....
Nonostante gli antichi matematici, scienziati e filosofi fu la
religione a creare la scienza moderna.
L'impero
romano lasciò in eredità all'Occidente la religione
cristiano-cattolica. Dopo il Medioevo, la civiltà
umanistico-rinascimentale rappresentò appunto una "rinascita"
delle scienze e delle arti. Ma tutte le nuove scoperte relative alle
scienze naturali, vecchie o nuove, come ad esempio l'eliocentrismo,
furono avversate dalla Chiesa, che interpretava la Bibbia come un
testo scientifico.
Gli
illuministi del '700 incarnavano l'ideale di Scienza tanto osteggiato
dalle gerarchie ecclesiastiche, con le loro tesi e le loro leggi
costoro mettevano a rischio la veridicità del Papato. Non mancarono
le persecuzioni.
Secondo me,
uno dei più grandi scienziati che sia mai esistito fu Charles
Darwin, autore del libro "Origine ed evoluzione delle specie".
In questo testo Darwin spiega come ogni animale, compreso l'uomo,
abbia seguito un'evoluzione lunga e diversificata. Lo scienziato non
perse mai la fiducia nella fede, se non alla morte della moglie. Nel
corso del libro non nega alcuno dei dogmi cattolici, ma specifica che
la Terra e l'Universo non sono una "diretta" Creazione di
Dio.
Personalmente
io credo nella conciliazione fra Scienza e Religione. D'altronde
perché non ci potrebbe essere un Dio che "spinga"
l'Universo? Scienza e Religione potranno mai andare d'accordo? O una
riuscirà a distruggere l'altra?
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mercoledì 30 novembre 2011
Tchaikovsky, non un compositore ma un poeta
di Vittorio Calogero
Pyotr Ilyich
Tchaikovsky è stato un compositore dell'Ottocento Europeo, noto per
Lo schiaccianoci, Il lago dei cigni, La bella
addormentata – trio di balletti eseguiti in tutto il mondo –
e March of toys.
Alcune volte
componimenti per orchestrali come il Nabucco di Verdi, il
Barbiere di Siviglia di Rossini, il Bolero di Ravel, il
Requiem di Mozart e molti altri sono definiti come semplici
brani orecchiabili, ma per la loro bellezza e per le loro
caratteritiche devono esser definiti semplicemente come pura poesia.
Questo è il caso di
uno dei più grandi componimenti per violino e orchestra, il Concerto
per violino in Re maggiore Op. 35 di Tchaikovsky. Dopo le prime
critiche, il brano divenne in pochissimo tempo, grazie alle numerose
esecuzioni in Europa – specialmente al teatro Bolshoi di Mosca,
patria di Tchaikovsky –, uno dei più importanti concerti per
violino.
Il componimento si
divide in tre parti:
I) Allegro moderato.
II) Canzonetta o
Andante.
III) Allegro
vivacissimo.
La maestosità di
questo brano si manifesta nella prima parte, dove il tema con le note
alte, stridule del violino e il tempo moderato, che rievoca i momenti
tristi e malinconici, lascia spazio improvvisamente alle volatine,
alle scale e agli arpeggi dello stesso solista, con numerosi cambi di
tempo, e si contrappone sempre allo stesso tema, questa volta
riproposto dall'orchestra, ma in un tempo molto più allegro.
La prima volta che
ho sentito questo brano è stato nel corso del film "Il
concerto", basato proprio su questa composizione di Tchaikovsky,
ed è stato "amore a prima vista". Per cinque giorni non
sono riuscito ad ascoltare nessun altro brano oltre questo: mi aveva
colpito molto, sia per le volatine e per gli arpeggi veloci del
solista, sia per la bellezza del tema riproposto, nel movimento
maestoso e in quello triste.
Altro
che Giovanni Pascoli, questa sì che è una poesia.
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giovedì 24 novembre 2011
Breve storia della scrittura
di Manlio Adone Pistolesi
La scrittura è stata una delle invenzioni piú importanti della storia; quest'ultima non esisterebbe senza l'invenzione della scrittura. Non si conoscono precisamente le origini di essa, ma la piú antica appartiene ai Sumeri che rappresentavano oggetti e parole con dei cunei; da questa rappresentazione deriva il termine «cuneiforme».
La scrittura è stata una delle invenzioni piú importanti della storia; quest'ultima non esisterebbe senza l'invenzione della scrittura. Non si conoscono precisamente le origini di essa, ma la piú antica appartiene ai Sumeri che rappresentavano oggetti e parole con dei cunei; da questa rappresentazione deriva il termine «cuneiforme».
In
Paesi piú o meno lontani, la scrittura assomigliava molto a quella
sumera, basti pensare ai geroglifici egizi. Ma su qualcosa tutte le
scritture concordano: il fine di lasciare una traccia ai posteri:
narrazioni di guerre, poesie, opere teatrali e tutto ciò che ci ha
permesso di comprendere il passato. Il termine «storia»,
senza queste fonti di sapere scritte, non esisterebbe. Si definisce
comunemente «storia»
il periodo che va dalle piú antiche scoperte relative alla scrittura
ad oggi. La «preistoria»,
ciò
che viene prima della «storia»,
viene così chiamata perché non si possiedono fonti scritte sulle
quali fare affidamento, quindi le uniche cose che ci possono
informare su di essa sono i ritrovamenti archeologici.
Però,
se ci pensiamo, la scrittura si é evoluta fino ad oggi. Infatti, non
tracciamo più cunei, geroglifici o ideogrammi. La nostra scrittura,
il nostro patrimonio cartaceo, deriva dall'alfabeto fenicio. Questo
popolo di marinai e navigatori, non potendo espandersi lungo i
confini della loro madrepatria, decise di andare alla conquista
dell'Ignoto. I Fenici, infatti, non sapevano cosa li aspettasse o
cosa avrebbero trovato al di fuori del Libano (l'odierno stato che
sorge sull'antica patria dei Fenici). Per questo, anche per via delle
piccole navi che avevano in possesso, svolsero un viaggio "costa
a costa". Ciò gli permise di attraversare tutto il Mediterraneo
da tappa in tappa, e con essi portarono anche il loro sapere, insieme
alla loro scrittura. I Fenici non sono ricordati come grandi
conquistatori, ma come colonizzatori; popolarono infatti soprattutto
i villaggi costieri, diffondendo la loro lingua e la loro scrittura,
composta solo da simboli consonantici.
La
fase evolutiva del nostro odierno alfabeto, tuttavia, non é ancora
completa: l'ultimo miglioramento é stato apportato dai Greci. Non
sappiamo ancora con certezza perché le poleis
greche cambiarono lingua, dalla lineare B all'alfabeto fenicio, ma
esse, dopo un "periodo buio" dovuto all'invasione dei Dori,
adottarono la nostra odierna scrittura con l'aggiunta delle vocali
alfa,
epsilon,
eta,
iota,
omicron,
ypsilon e
omega.
Oggi
le lingue nel mondo sono diverse, ma ognuna ha qualcosa in comune con
l'altra. I linguisti, studiando le lingue antiche, si sono accorti
che molte si assomigliavano, e tuttora quelle che sono derivate da
esse mantengono alcune somiglianze con lingue all'apparenza molto
diverse. Una delle ipotesi sostenute riguarda l'influenza di un
popolo originario delle steppe russe. Secondo gli studiosi questi
popoli discesero dalla Siberia e si divisero "a ventaglio":
alcuni andarono oltre il fiume Indo, altri verso il Vicino Oriente e
l'Europa. Quindi la nostra lingua potrebbe derivare da alcuni popoli
capaci di "colonizzare culturalmente" tutti gli altri.
La
scrittura era, è, e sarà il mezzo con cui potremo narrare e
descrivere la Storia della nostra specie. Mentre scrivo questo
articolo, sto facendo storia. Come disse Theodore Roosevelt, «per
conoscere il futuro bisogna conoscere il passato, perché prima o poi
questo si ripete».
I giovani e l'alcol
di Samuele Tripodi
Il consumo di alcolici
tra i giovani sta diventando un problema a causa dell’età sempre
meno elevata dei bevitori. Quali sono le cause del fenomeno ed i
possibili mezzi per arginarlo?
Oggigiorno i giovani
hanno tantissimi modi per divertirsi grazie ai tanti parchi-gioco,
campi sportivi, palestre, e le molte altre risorse di svago che le
moderne città ci offrono. Nonostante tutte queste attrattive i
giovani aspettano il sabato sera per svagarsi, per smaltire tutto lo
stress accumulato durante la settimana. Ciò che preoccupa
maggiormente non è tanto il divertirmento del sabato sera, ma il
modo in cui ci si diverte.
Le statistiche
evidenziano che giovani fanno uso di alcol e le percentuali sono
molto preoccupanti. Gli italiani, senza distinzione d’età, che
dichiarano di bere alcolici almeno un giorno alla settimana sono più
del 70%. Tra i giovani dai 15 ai 25 anni, tre su quattro fanno
abitualmente consumo di alcool, circa il 74%. Ma non è tutto: negli
ultimi anni le statistiche dimostrano che le ragazze bevono molto di
più! Sono circa il 67% le ragazze che iniziano a bere alcolici prima
del quindicesimo anno di età.
Purtroppo, questo
problema sta prendendo il sopravvento sui giovani d’oggi; che fare
allora?
I genitori dovrebbero
essere più presenti con i loro figli, dovrebbero stargli accanto in
tutti i momenti, specie in quelli di difficoltà, perché la
principale causa dell'alconismo giovanile coincide con l'assenza o il
mancato controllo delle figure-cardine del contesto familiare. Da
parte loro, i giovani non devono annegare i loro problemi nell’alcol,
anche perché questa sostanza non fa altro che alimentarli.
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domenica 20 novembre 2011
Chi siamo? Da dove veniamo? Perché siamo qui?
di Manlio Adone Pistolesi
Molti
filosofi, poeti e scienziati ci hanno definito come un agglomerato di
polveri stellari, un miscuglio di elementi chimici, un complesso
gruppo di pensieri e immaginazioni... Altro non siamo che un frutto
dell'evoluzione: un insieme di casi fortuiti che hanno contribuito
alla nostra origine.
Ma
perché noi?
Grazie
ad un insieme di eventi quali una posizione favorevole del pianeta
nello spazio e ad altri accadimenti catastrofici che hanno fatto
estinguere le grandi lucertole carnivore ed erbivore, i mammiferi
hanno potuto incominciare a conquistare il pianeta Terra e ad
evolversi fino alle forme attuali.
I
nostri antenati, le scimmie antropomorfe, non erano molto diverse da
quelle di "oggi". La vera differenza sta nella capacità di
camminare. Infatti, al contrario di ciò che molti credono, le
scimmie incominciarono ad acquistare una spiccata curiosità quando
scesero dagli alberi delle foreste e incominciarono a camminare su
due zampe. Questo semplice atto fu per noi il "primo passo"
verso una veloce evoluzione che ha come prodotto il genere umano.
Insomma,
il genere umano non é altro che un caso fortuito, un prodotto
inaspettato dovuto a condizioni favorevoli. I primi uomini non solo
dovevano sfidare la natura, ma anche l'evoluzione. La postura eretta
comportò diversi cambiamenti. L'uomo stando alzato sui due arti
posteriori, nonostante la piccola altezza – 1,30/1,50 metri –,
poteva osservare il mondo con tutt'altra prospettiva. Poteva
avvistare i predatori e le prede a distanza, e questo comportò
un'evoluzione della sua vista. Con la postura eretta poteva
raggiungere gli alberi e raccogliere frutti. Questo cambiamento
posturale modificò anche il corpo stesso dei nostri antenati: l'osso
del piede si abbassò fino a toccare terra ed ebbe una maggiore
aderenza al suolo, sviluppando ulteriormente la capacità di corsa.
La schiena si raddrizzò e le mani, che fino a quel momento erano
servite per poter camminare, diventarono futili; per questo motivo, i
nostri antenati – i vari Homines – cercarono di impiegarle
in altro modo. Quindi, dal piccolo atto di un quadrupede che diventa
bipede, si genera una specie nuova, progredita e pronta a conquistare
il mondo. Sin dai primordi della storia a noi conosciuta l'uomo ha
cercato sempre di migliorare la sua vita attraverso le innovazioni
tecnologiche. Le diverse innovazioni tecnologiche e scientifiche,
sempre più rivoluzionarie, che l'uomo attuò, servivano a dominare
la natura circostante, terrificante e brulicante di pericoli.
L'essere
umano é dunque il frutto di un'evoluzione complessa e diversificata.
La storia dell'uomo, confrontata con la nascita del pianeta e
paragonata ad un coevo calendario, rappresenta soltanto l'ultimo
minuto del 31 dicembre. Questo dimostra quanto la nostra evoluzione
sia stata veloce e pericolosa, se teniamo conto di tutti fenomeni
catastrofici che abbiamo dovuto affrontare.
Oggi,
possiamo definirci come i dominatori della Terra. Ma saremo capaci di
gestire il nostro pianeta? Svilupperemo macchinari futuristici capaci
di migliorare ulteriormente la nostra vita? Raggiungeremo mai altri
Esopianeti? A quali ostacoli andremo incontro?
Come
disse Einstein in uno dei suoi celebri aforismi, «Non sarei un vero
scienziato se non credessi all'ignoto».
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lunedì 14 novembre 2011
A CACCIA DI LUOGHI COMUNI: breve storia delle dissimulazioni religiose al potere
di Natale Zappalà (*)
Le religioni per così
dire “statali”
(quelle istituzionalizzate, o comunque percepite come “ufficiali”
all'interno di un gruppo umano) hanno sempre svolto, da un
punto di vista strettamente politico, il delicato ruolo di inquadrare
il corpo civico, tenendone a freno e condizionandone il pensiero,
attraverso ciechi dogmatismi o formalismi meccanici. D'altro canto,
gli uomini di potere, consci di tale pregevole valenza, hanno sempre
saputo celare dietro uno spietato pragmatismo un'ipocrita apparenza
di pietas; in altre parole, mostrandosi ligi nel seguire
ideologie, prescrizioni e ritualismi delle religioni tradizionali
agli occhi del popolino, nel privato se la ridevano dell'ignoranza e
della creduloneria della gente comune.
Tanto per fare qualche
esempio illustre, nell'Egitto della XVIII Dinastia (XIV sec. a.C.),
il faraone Akhenaton inventò la prima forma documentata di
monoteismo, il culto del disco solare Aton, soprattutto per sottrarre
alla casta scribo-sacerdotale devota di Amon-Ra (il sole mitologico)
il prestigio derivante dal monopolio delle pratiche religiose
connesse con templi, sacrifici e offerte. Questioni politiche ed
economiche dunque, sapientemente mascherate dal ricorso
all'ultramondano.
All'interno del mondo
greco-romano la religione – il cui ciclo di festività aveva anche
la funzione di scandire il tempo e ricompattare le cittadinanze
attraverso processioni o banchetti rituali – si risolveva
essenzialmente in un legame contrattuale fra uomini e dei: i primi
onoravano i secondi, riservandogli l'onore (timé) che gli
spettava, il tutto al fine di scongiurare un ipotetico castigo
divino; questo, almeno, era quello che credevano le masse. Tale
aspetto prettamente ritualistico induceva tutti coloro che
avvertivano l'esigenza di intrecciare rapporti più “spirituali”
con il mondo soprannaturale, rifugiandosi in culti maggiormente
coinvolgenti come quelli misterici, durante i quali i fedeli
ritenevano di instaurare un contatto diretto (detto di sympatheia,
«patire
insieme»)
con la divinità. Ciò non impediva a personaggi autorevoli
come Alcibiade nell'Atene del V sec. a.C. di sbeffeggiare i celebri
misteri eleusini, parodiando in casa propria quelle stesse cerimonie,
per altro segretissime e aperte ai soli iniziati, in cui i suoi
concittadini mostravano di credere così sinceramente.
Ma il primo posto nella
speciale classifica dei grandi dissimulatori religiosi dell'antichità
spetta sicuramente a Giulio Cesare, capace di conciliare una spiccata
e snob laicità fattuale con l'esercizio della massima autorità
sacrale romana, il pontificato massimo. In un contesto dove ogni
azione pubblica era accompagnata dall'esecuzione di riti
beneaguranti, gli auspicia, fu capace, quando inciampò
malamente sbarcando in Africa durante la guerra civile, di volgere in
positivo il presagio funesto, gridando: «Teneo
te, Africa!»
(«Ti
tengo, Africa!»).
L'avvento
del cristianesimo non mutò l'atteggiamento degli uomini di potere:
Costantino ne liberalizzò il culto per convenienza politica, avendo
scorto nell'organizzazione ecclesiale, naturalmente gerarchizzata e
dotata di un controllo capillare sul territorio, un efficace potere
suppletivo delle autorità municipali romane in decadenza.Tuttavia,
il buon imperatore non ne volle mai sapere di battesimo, se non in
punto di morte e, per di più, ricevendo il sacramento da un vescovo
ariano, un “eretico” per la Chiesa di Roma.
La
lista degli aneddoti sulle dissimulazioni religiose dei potenti
sarebbe troppo lunga se si enumerassero tutti i casi che affollano la
Storia. Basterà, limitandoci alla Storia dell'Occidente e alla
categoria dei papi, precisare che molti di essi, specie i più dotti
(come Silvestro II, il “papa-mago” dell'anno Mille o Pio II, al
secolo l'umanista, nonché autore di racconti erotici, Enea Silvio
Piccolomini), furono tacciati di “ateismo”, proprio perché, al
riparo delle esigenze spirituali delle moltitudini, se ne ridevano di
dogmi e prescrizioni. Per non parlare poi di tutti quei pontefici –
da Bonifacio VIII ad Alessandro VI, i riferimenti pullulano – che
fornicarono, procrearono, specularono, raccomandarono e, soprattutto,
strumentalizzarono politicamente il proprio primato sui cattolici,
con buona pace della povertà evangelica, dei dieci comandamenti e di
tutte le norme alle quali i fedeli erano invitati a conformarsi; «fa'
come il prete dice, e non come il prete fa!», il motto è
azzeccatissimo. Persino oggigiorno i beninformati sono pronti a
giurare che nel segreto delle stanze vaticane il teologo Benedetto
XVI la pensi diversamente da ciò che sostiene in pubblico
circa la transustanziazione, l'omosessualità, il celibato dei preti,
i rapporti sessuali prematrimoniali o sull'uso del preservativo.
Un
uomo di potere, se si mostra “pio” risulta sovente bene accetto
agli occhi del popolo, e questo a prescindere dal ruolo che egli
ricopre; non a caso i capi di stato sono soliti farsi riprendere
dalle telecamere quando vanno in chiesa o in moschea. Insomma, la
Storia non è cambiata, e come sosteneva il cardinale Richelieu
«saper dissimulare è la scienza dei re»; specie quando si tratta
di religione, aggiungiamo noi.
(*) Fonte: www.natalezappala.it
lunedì 7 novembre 2011
«No, mi scusi, stavo pensando»
di Stefania Guglielmo
Viveva
in un piccolo borgo un uomo curioso che, proprio a causa della sua
estrema invadenza, era solito fermarsi a parlare con chiunque
destasse il suo interesse.
Fu
così che una mattina di fine estate scorse, adagiato su una sedia a
guardare il mare, un uomo pensieroso, e subito si chiese a cosa
stesse pensando quel misterioso personaggio.
L’interesse
in lui era così vivo che il curioso si accomodò affianco all’uomo
assorto.
Per
i primi minuti rimase in silenzio e lo osservò mentre l’altro uomo
non notò la sua presenza, tanto era concentrato ad inseguire i suoi
pensieri; accadde così che più trascorreva il tempo in cui egli lo
osservava, più quel bizzarro modo di fare accresceva la sua
curiosità.
L’uomo
curioso finalmente cedette e così esordì:
«Buongiorno!»
Ma
non ottenne risposta; l'uomo era così pensieroso da non udire le
parole del curioso! Allora, imperterrito, ripeté con voce più
acuta:
«Buongiorno!»
A
quel punto l’uomo pensieroso sussultò e rispose:
«Buon…
Buongiorno! Mi scusi, stavo pensando».
«Eh...
L’ho notato! A cosa pensava di così importante ?»,
chiese il curioso.
«Pensavo
alla mia vita»,
rispose l'uomo meditabondo.
«Se
potessi ascolterei la sua storia. Mi incuriosisce, lo sa? Lei stava
pensando a qualcosa di troppo intenso per accorgersi di ciò che le
accadeva intorno»,
controbatté
il curioso.
«In
realtà io credo che non le piacerebbe udire la mia storia; se
potessi la cambierei!»
L’uomo
curioso, dopo questa enigmatica affermazione, non riuscì a contenere
oltre la sua sete di conoscenza, e così insistette finché il suo
interlocutore non iniziò a narrare le molteplici peripezie da lui
vissute. Sembrava proprio sfortunato!
Tuttavia,
mentre l’uomo curioso iniziò a chiedersi fra sé e sé come
potessero accadere tante sciagure ad un solo individuo, giunse un
altro personaggio, che subito catturò il suo volubile interesse.
L'uomo assorto ne approfittò per estraniarsi di nuovo dal resto del
mondo.
L’uomo
curioso, voltatosi, aveva scorto un giovane ragazzo dal sorriso
luminosissimo e gli domandò chi fosse. Il giovane cominciò così a
descriversi con allegria, parlando con consapevolezza di ogni suo
sogno e di ogni sua idea. Dopo di che si avvicinò all’uomo
pensieroso, e sfiorandogli la spalla gli chiese:
«Come
stai papà? Ti va di sapere cos'ho fatto oggi ?»
L’uomo
pensieroso, inizialmente stupito, annuì, e così il ragazzo cominciò
la sua narrazione, ma, sorprendentemente, durante il discorso del
figlio, il padre si estraniò nuovamente, e quando il giovane chiese
la sua opinione si accorse di non essere ascoltato già da un pezzo.
Se
ne andò profondamente deluso, rimanendo ancora più frustrato
nell’accorgersi che il padre non aveva notato la sua assenza.
L’uomo
curioso, che aveva attentamente assistito alla scena, rimase
esterrefatto, e così decise, per un mese intero, di tornare tutte
le mattine a sedere con quell’uomo pensieroso.
Con
l’andar del tempo, si accorse che il fanciulo, che speranzosamente
tentava di dialogare col padre, diveniva gradualmente sempre più
cupo, duro e chiuso, e finì per evitare qualsiasi domanda postagli
da quell’uomo che mai udiva le sue risposte.
Trovandosi
lì, un giorno, l’uomo curioso notò qualcosa di diverso nello
sguardo del fanciullo, e quasi senza riconoscerlo gli chiese chi
fosse…
Questi,
stupito, chiese se fosse davvero interessato a saperlo, ma, dopo
l’entusiasmo iniziale – che che per un attimo gli restituì le
sembianze d’un tempo –, incupitosi, proferì tali parole:
«Io
non sono degno di essere ascoltato».
Si alzò di fretta e fuggì via.
Atterrito
da ciò che aveva udito, il curioso si voltò verso l’uomo
pensieroso, ancora assorto, richiamò la sua attenzione e gli chiese:
«Com'è
potuto succedere tutto ciò? »
Questi
lo guardò perplesso e poi rispose:
«Di
cosa parla buon uomo?».
«Non
si è accorto proprio di nulla?»,
disse l'altro.
E
l’uomo pensieroso così concluse:
«No,
mi scusi, stavo pensando».
venerdì 28 ottobre 2011
“Il silenzio degli innocenti”: una recensione fra brivido e coinvolgimento
di Vittorio Calogero
Jodie Foster e
Antony Hopkins interpretano «il
bene» e «il
male» nel film diretto da
Jonathan Demme, “Il silenzio degli innocenti”, terzo film (dopo
“Accade una notte” e “Qualcuno volò sul nido del cuculo”) a
vincere ben cinque premi oscar: miglior attore a A. Hopkins, miglior
attrice a J. Foster, miglior film dell'anno, migliore regia a J.
Demme e miglior sceneggiatura non originale a T. Tally.
La comparsa di un
serial killer con la mania di scuoiare le proprie vittime convince il
capo dell' FBI, Jack Crawford, ad affidare il caso alla giovane
recluta Clarice Starling. Ben presto, l'agente si accorge che l'unica
soluzione per risolvere il caso è interrogare Hannibal Lecter, ex
psichiatra e criminologo, rinchiuso nel manicomio di massima sicuezza
di Baltimora per aver ucciso e divorato i corpi dei suoi pazienti.
L'FBI, infatti, ha il sospetto che Lecter possa sapere molto sul
carattere e sulla mentalità di "Buffalo Bill", nome
assegnato dall' FBI al serial killer, poichè in passato è stato un
suo paziente.
Clarice, dopo esser
stata avvertita sia dal suo capo che dal titolare del manicomio di
non rivelare nulla della sua identità, prende un "appuntamento"
con Hannabal.
Lecter mostra subito
alla ragazza, oltre alla sua evidente superiorità intellettiva,
anche la voglia di collaborare, ma a un patto: più indizi sulla sua
vita lei gli avrebbe raccontato, più informazioni lui le avrebbe
dato. Dopo aver accettato il patto, l'agente Starling scopre che la
semplicità è la chiave per risolvere gli indizi di Hannibal, ed è
proprio grazie al ricordo delle sue esperienze, riaffiorate con
l'aiuto del cannibale, che Clarice trova un legame tra una delle
vittime e il serial killer, riuscendo così a trovare ed uccidere
"Buffalo Bill", il cui vero nome è Jame Gump. Nel
frattempo Lecter, che viene trasferito in un altro manicomio per aver
collaborato, riesce a fuggire facendo perdere le proprie tracce.
Il risultato è uno
spettacolo coinvolgente, con momenti di grande suspence, ben poco
consolatorio e costellato inoltre da alcune sequenze indimenticabili:
i confronti dialettici fra la Starling e Hannibal, la fuga dal
carcere di quest'ultimo o lo scontro finale tra l'agente dell'FBI e
“Buffalo Bill”. Regia e montaggio esemplari, due attori come
Anthony Hopkins e Jodie Foster, al top delle loro capacità
interpretative, completano il quadro di un'opera di eccellente
livello, una manna per chi ama le storie a tinte fosche.
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mercoledì 5 ottobre 2011
Prove tecniche ante-comma 29
di Natale Zappalà
Il popolo del web, negli
ultimi tempi, sta insorgendo contro la cosiddetta “legge-bavaglio”.
Al fine di comprendere qualcosa in più sul tema, facciamo finta che
oggi sia già entrato in vigore il Ddl 1415-A sulle intercettazioni,
comprensivo del famigerato comma 29, quest'ultimo oggetto di feroci
critiche soprattutto da parte dei portali informativi online e dei
bloggers, in quanto percepito come un grave smacco all'inalienabile
libertà di pensiero e di espressione.
Presentiamo dunque ai
lettori un articolo di prova in cui verranno elencate miriadi di
falsità:
"Il Belpaese"
In Italia si investe
sempre e solo sulla cultura. Non potrebbe essere altrimenti, dal
momento che si tratta dello stato più civile del mondo per
tolleranza, qualità della vita, prodotto interno lordo, occupazione,
anche perché da sempre guidato da una classe politica illuminata e
all'avanguardia, malpagata e senza alcun privilegio, caratterizzata
da una condotta morale impeccabile.
Non ci sono caste in
Italia: chi sbaglia paga, dal magistrato al presidente del consiglio.
I cittadini godono di piena libertà di espressione e di culto; tutti
possono dire o scrivere qualsiasi cosa e tramite qualunque mezzo,
mentre non esistono religioni che ingeriscono negli affari di stato,
che è pienamente laico. Le tasse sono pagate da tutti in modo equo e
proporzionale al proprio reddito. Il welfare è ottimo e garantisce
servizi essenziali alla popolazione.
Il sistema mediatico e
quello relativo alla pubblica istruzione non mirano a plasmare i
giovani in base agli stereotipi collaudati del tronista e della
sgavettata da balletto che poi intraprende la carriera politica.
L'informazione non risulta affatto condizionata da chicchessia.
Insomma, in Italia
tutto va bene e nulla necessita di cambiamenti repentini o urgenti.
In questo caso bisognerà
attendere che la Verità, l'unico referente che potrebbe sentirsi
offeso dal succitato articoletto, presenti alla nostra redazione un
reclamo in cui si dichiara il contenuto del pezzo come lesivo della
propria immagine; entro 48 ore noi dovremo dunque pubblicare una
rettifica volta a contestare o smentire ciò che abbiamo affermato,
anche se, eventualmente, fossimo in grado di dimostrarne
l'attendibilità.
Noi, tuttavia, dubitiamo
che la Verità, qualora entrasse davvero in vigore il Ddl 1415-A, si
farebbe avanti per rivendicare il “diritto di rettifica”.
Anch'essa, insieme alla Libertà, alla Coerenza e allo Spirito
Critico, sembra aver lasciato l'Italia alla ricerca di posti
migliori.
lunedì 19 settembre 2011
La Relatività della condizione umana
di Stefania Guglielmo
Il
concetto di mondo, inteso come realtà, è generalmente un concetto
noto a tutti in maniera piuttosto unitaria. Se però ci si sposta dal
campo del generale a quello del particolare –
dunque, da un ambito più astratto ad uno maggiormente
concreto –, ciò che ognuno
riconosce come mondo, come realtà, risulta essere un concetto
soggettivo, unico, e che non trova un corrispettivo completamente
soddisfacente nel pensiero di nessun altro individuo. Il mondo e la
realtà sono infatti individuali e, nel più intimo pensiero del
singolo, vengono rappresentati dall’insieme delle esperienze
vissute e, conseguentemente, dai luoghi, dalle persone e dalle
circostanze con cui o in cui ci si è ritrovati a vivere e da cui
derivano, inevitabilmente, i lineamenti fondamentali della propria
personalità.
Per
tale ragione, l’uomo vive nel mondo e nella realtà con una
consapevolezza direttamente proporzionale alla qualità delle proprie
esperienze. Sarebbe opportuno, tuttavia, precisare che la qualità
delle esperienze vissute – così
come, più in generale, il livello del progresso scientifico
raggiunto dalla società in cui si vive –
può accrescere la consapevolezza che l’individuo ha del reale, ma
non le sue possibilità di conoscere oggettivamente il mondo e la
realtà.
L’individualità
e l’unicità di ogni singola esistenza si pongono come le
caratteristiche principali della vita, principali e necessarie per il
rispetto della più profonda essenza umana, ma, contemporaneamente,
si dimostrano i limiti più grandi dell’uomo. L’individuo,
infatti, strettamente ed inguaribilmente legato alla propria realtà
individuale, non potrà mai prescinderne per giungere ad una
conoscenza generale del mondo nella sua interezza, a meno che non
riesca a trovarsi fuori da se stesso e da tutta la realtà
circostante.
Da
ciò si deduce che ogni uomo, possedendo la propria realtà
individuale, condurrà un’indagine altrettanto individuale del
mondo che conosce, nel corso della quale assumerà una centralità
che, oggettivamente, nell’ambito della verità della realtà
generale che eternamente sfugge, non gli appartiene.
L’individuo
che giunge all’acquisizione di tale consapevolezza è un soggetto,
di questi tempi, pericoloso. Il riconoscimento della relatività
della posizione dell’uomo nei confronti della realtà oggettiva
conduce, del resto, all’assunzione di una seconda consapevolezza:
si giunge a comprendere che l’individuo è in sé propenso a
sottostare esclusivamente alle verità scaturite dal suo interno, dal
suo rapporto con la realtà, e che poco gli si addice, nel corso
della sua vita, l’accettazione di verità dettate, invece, da
realtà esterne, non interamente coincidenti con la propria, e dunque
soggette ad un diverso parametro di veridicità.
Tale
pensiero conduce a vivere criticamente la propria esistenza, anche se
risulta paradossale nel periodo storico e sociale che stiamo vivendo,
determinato a proporre con ogni forza una realtà fittizia, sempre
più omologata. Il relativismo, di converso, libera l’individuo da
eventuali condizionamenti di carattere sociale, religioso, etico o
ideologico, permettendogli lo sviluppo di un'opinione individuale,
legata esclusivamente ad un rapporto di coerenza nei confronti dei
caratteri più intimi della propria personalità, spingendolo ad
adottare come unico metodo per orientarsi nel mondo quello più
idoneo alla sua condizione: la conoscenza di se stessi in relazione
all’esperienza della propria realtà.
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Filosofia,
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Stefania Guglielmo
Stephen King: un pazzo o semplicemente un genio?
di Vittorio Calogero
Stephen Edwin King,
ormai celeberrimo scrittore horror, nasce il 21 settembre 1947
a Portland, nel Maine. Suo padre, Donald Edwin King, è un impiegato
della Electrolux, ex capitano della Marina Mercantile nonché reduce
della seconda guerra mondiale; sua madre, Nellie Ruth Pillisbury
King, è una casalinga di origini modeste. Iscrittosi in prima
elementare, King passa i primi nove mesi malato. Colpito prima dal
morbillo, ebbe in seguito problemi con gola ed orecchie. Curato dagli
esperti, si ritira dalla scuola per volere di sua madre e passa
diversi mesi in casa. È nel corso di questo periodo che King inizia
a scrivere, copiando interamente fumetti a cui aggiunge descrizioni
personali.
Il suo primo
racconto, completamente inventato da lui, tratta di quattro animali
magici a bordo di una vecchia macchina, guidati da un enorme coniglio
bianco e con il compito di aiutare i bambini. All'età di circa dieci
anni si stabilisce a Durham, nel Maine. Frequenta la Lisbon Falls
High School e, subito dopo il primo anno, diventa direttore del
giornale scolastico The Drum, assieme a Danny Emond. Il
giornale avrà scarso successo, ma costerà una punizione a Stephen
King che, annoiato dai soliti articoli, concepisce l'idea di
realizzare un giornale umoristico prendendo in giro i vari
professori. The village vomit, il nuovo nome del giornale,
riscuote successo fra gli studenti, ma i professori non gradiscono i
vari soprannomi affibiatigli e spediranno King in punizione per una
settimana. Al termine della stessa, il giovane scrittore verrà
contattato per far parte di un vero giornale, il Lisbon Enterprise,
settimanale di Lisbon. Inizierà qui a scrivere riguardo a incontri
sportivi e apprenderà le tecniche di buona scrittura.
Ma la domanda che mi
sorge spontantea in questo momento, dopo aver narrato la storia di
King fino al primo libro dell'orrore da lui pubblicato nel 1974
(Carrie), è la seguente: come ha fatto un bambino che
scriveva di un coniglio che aiutava i bambini a diventare l'autore
che oggi, con le sue storie, è riuscito ad ispirare registi del
calibro di Stanley Kubrick, John Carpenter, Brian De Palma e David
Cronenberg?
Molti sono stati gli
episodi che hanno influenzato la sua scrittura. Nel 1949 il padre
esce per una delle sue passeggiate, non facendo più ritorno a casa:
i motivi sono da ricercare in un difficile rapporto con l'ambiente
familiare. Questo avvenimento segnerà profondamente il carattere del
futuro scrittore, tanto che è possibile trovare in numerosi romanzi
il difficile rapporto padre-figlio (fra gli altri: It, Cujo,
Christine - la macchina infernale e Shining). Un altro
episodio che ha influenzato l'infanzia di King al di là della
scomparsa padre, è rappresentato dalla morte di un suo amico.
All'età di quattro anni, mentre i due bimbi giocano vicino alla
linea ferroviaria, l'amico del futuro scrittore cade sulle rotaie e
viene travolto da un treno. King, in stato confusionale, torna a casa
senza ricordare quanto successo.
Ma
anche negli anni recenti la qiuete dell'autore viene scombussolata.
Nel 1977 la madre di King muore di cancro e lo scrittore sviluppa
seri problemi di dipendenza da alcol e droga, arrivando addirittura a
pronunciare ubriaco il discorso di addio al funerale della madre. I
suoi problemi di tossicodipendenza vengono a lungo sottovalutati
perché non incideno in alcun modo nella sua produttività
lavorativa, e solo nel 1987 l'intervento di familiari e amici dà
inizio al faticoso processo di disintossicazione, che durerà oltre
un anno. Il pomeriggio del 19 giugno 1999, dopo aver accompagnato
all'aeroporto il figlio più giovane, Owen, intorno alle quattro
pomeridiane intraprende la sua abituale camminata di sei chilometri
nei dintorni di Center Lovell, nel Maine occidentale, per un tratto
lungo la Route 5, la
strada asfaltata che collega Bethel e Fryeburg. È proprio lì che
Bryan Smith, quarantaduenne con precedenti coinvolgimenti in una
dozzina di incidenti stradali, alla guida di un minivan Dodge blu,
distratto dal suo rottweiler Bullet, saltato sul sedile posteriore
attratto da un frigo portatile che contiene della carne, travolge in
pieno lo scrittore che sta camminando sul ciglio della strada.
Trasportato in un primo momento al Northern Cumberland Hospital di
Bridgton, viene poi trasferito in elicottero al Central Maine Medical
Center di Lewiston, a causa della grave entità dei traumi subiti:
polmone destro perforato; gamba destra fratturata in almeno nove
punti (tra cui ginocchio e anca); colonna vertebrale lesa in otto
punti; quattro costole spezzate; lacerazione del cuoio capelluto.
Esce dall'ospedale il 9 luglio, dopo tre settimane dal ricovero. Dopo
aver accettato in un primo momento le scuse dell'investitore, King
decide di denunciarlo per fargli ritirare la patente e di acquistarne
il veicolo per 1600 dollari, nella prospettiva di sfasciarlo una
volta recuperate le forze fisiche. Le sette operazioni chirurgiche
necessarie per essere rimesso in sesto e la lunga e dolorosa
convalescenza interrompono la proverbiale disciplina dello scrittore,
non più in grado di lavorare ininterrottamente quattro ore ogni
mattina per scrivere ogni giorno 2500 parole.
Uno
degli avvenimenti che ha segnato il giovane autore è stata la
scoperta del genere letterario da lui stesso preferito: L'Horror,
scoperto all'età di soli dieci anni. Due anni dopo, rinviene nella
soffitta della zia i libri del padre, appassionato di Edgar Allan
Poe, H.P. Lovecraft e Richard Matheson, nonché appassionato
scrittore. Ed è nel 1960 che King invia il suo primo racconto a una
rivista, la Spacemen,
che si occupava di film di fantascienza. Il suo scritto non sarà mai
pubblicato. Stephen Edwin King sfonda nel mondo letterario nel 1974,
otto anni dopo essersi diplomato e aver ricevuto il diploma
d'insegnamento, con Carrie,
libro che ha permesso all'insegnante di liceo di lasciare il proprio
lavoro e a dedicarsi interamente alla scrittura. Oggi King vive
insieme alla sua famiglia a Bangor, nel Maine e vanta un numero
enorme di pubblicazioni, circa una sessantina. Quando ho incominciato
a leggere i libri di Stephen King pensavo che si trattasse di un
pazzo con una mente contorta, specialmente dopo aver finito di
leggere It;
più continuavo a leggere i suoi manoscritti, più me ne convincevo,
ma avevo otto anni ed ovviamente ero troppo immaturo. Oggi, avendone
ormai quattordici, dopo aver letto e riletto gli stessi libri, ho
cambiato diametralmente opinione: ora sono dell'avviso che Stephen
King non è pazzo, ma semplicemente un genio.
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venerdì 8 luglio 2011
Tu chi sei?
di Stefania Guglielmo
- Tu chi sei ?
- Come chi sono? Sono una foglia!
- Anche io sono una foglia, eppure non sono te, dunque tu chi sei?
- Sono una viaggiatrice per destino, conosco il mondo e mi lascio portare via dal vento.
- Anche io, sai, sono una viaggiatrice, anche io non ho scelto di viaggiare, anche io mi lascio portare via dal vento, ma non sono te, dunque tu chi sei?
- Non so cosa dirti, se non che sono una foglia ma non sono te! E tu chi sei, oltre che una foglia bizzarra e un po' curiosa ?
- Sono la foglia più curiosa, bizzarra e attenta che io abbia mai conosciuto.
- Beh, lo ripeto: sei proprio bizzarra! Come pretendi di essere tu stessa tra le foglie che hai conosciuto? È l’ignoto che si conosce; tu sei forse ignota a te stessa?
- Io no, io so chi sono, sei tu che non ti riconosci.
- Quanto meno so di non essere una foglia folle che pretende di conoscere o non conoscere sé stessa.
- Che cos'è la follia?
- È la perdizione di sé!
- Dunque chi è folle perdendosi è anche ignoto a sé stesso?
- Credo di sì!
- Quindi tu chi sei ?
- L’ho già detto una foglia, una foglia e basta, nulla di più di una qualsiasi altra foglia.
- Se sei una foglia e basta, nulla di più di una qualsiasi altra foglia, come farò a distinguerti da tutte le altre che volano nel vento?
- Forse non potrai.
- Dunque tu ai miei occhi avrai perso te stessa fra le mille altre foglie che volano nel vento o non è così?
- Credo di sì!
- Dunque tu sarai folle ?
- Può darsi, ma lo sarò come mille altre foglie che si lasciano trasportare per il mondo dal vento.
- Dunque neanche la follia saprà aiutarmi a riconoscerti?
- Credo di no.
- Come ti senti ad essere pur non essendo in realtà nessuno, nemmeno una folle?
- Smarrita, credo.
- Eppure dici di volare insieme a molte altre foglie e di conoscere il mondo, non dovresti avere problemi nel trovare la via. A proposito, dov’è che andate tutte voi «solo foglie» volando nel vento?
- Io... Io non lo so, andiamo … Noi voliamo nel vento. Tu dove vai?
- Viaggio per il mondo per trovare una cosa.
- Cosa cerchi foglia curiosa?
- Cerco nel mondo ciò che è dentro di me.
- Dunque tu sei folle? Hai perso te stessa e addirittura ti cerchi nel mondo?
- No, io conosco me stessa e ora sto conoscendo il mondo, cercando in esso ciò che già è dentro di me. Se non conoscessi me stessa, cosa cercherei di inerente a me nel mondo? Farei meglio a starmene laggiù, insistentemente arginata al suolo, tanto la mia condizione non cambierebbe.
- Dunque secondo te io dovrei fermarmi ?
- Dipende, tu chi sei?
- Te l'ho detto, questo proprio non lo so, sono solo una foglia..
- Ho capito!
- Dunque che cosa devo fare, foglia curiosa? Non so chi sono, ma non voglio continuare così.
- Forse dovresti scegliere «solo una foglia».
- Scegliere cosa?
- Scegliere se fermarti o viaggiare, per esempio.
- E perché dovrei farlo?
- Perché,vedi, scegliendo, cominceresti ad essere non più solo una foglia, ma un'irripetibile foglia che vola leggera.
- Come chi sono? Sono una foglia!
- Anche io sono una foglia, eppure non sono te, dunque tu chi sei?
- Sono una viaggiatrice per destino, conosco il mondo e mi lascio portare via dal vento.
- Anche io, sai, sono una viaggiatrice, anche io non ho scelto di viaggiare, anche io mi lascio portare via dal vento, ma non sono te, dunque tu chi sei?
- Non so cosa dirti, se non che sono una foglia ma non sono te! E tu chi sei, oltre che una foglia bizzarra e un po' curiosa ?
- Sono la foglia più curiosa, bizzarra e attenta che io abbia mai conosciuto.
- Beh, lo ripeto: sei proprio bizzarra! Come pretendi di essere tu stessa tra le foglie che hai conosciuto? È l’ignoto che si conosce; tu sei forse ignota a te stessa?
- Io no, io so chi sono, sei tu che non ti riconosci.
- Quanto meno so di non essere una foglia folle che pretende di conoscere o non conoscere sé stessa.
- Che cos'è la follia?
- È la perdizione di sé!
- Dunque chi è folle perdendosi è anche ignoto a sé stesso?
- Credo di sì!
- Quindi tu chi sei ?
- L’ho già detto una foglia, una foglia e basta, nulla di più di una qualsiasi altra foglia.
- Se sei una foglia e basta, nulla di più di una qualsiasi altra foglia, come farò a distinguerti da tutte le altre che volano nel vento?
- Forse non potrai.
- Dunque tu ai miei occhi avrai perso te stessa fra le mille altre foglie che volano nel vento o non è così?
- Credo di sì!
- Dunque tu sarai folle ?
- Può darsi, ma lo sarò come mille altre foglie che si lasciano trasportare per il mondo dal vento.
- Dunque neanche la follia saprà aiutarmi a riconoscerti?
- Credo di no.
- Come ti senti ad essere pur non essendo in realtà nessuno, nemmeno una folle?
- Smarrita, credo.
- Eppure dici di volare insieme a molte altre foglie e di conoscere il mondo, non dovresti avere problemi nel trovare la via. A proposito, dov’è che andate tutte voi «solo foglie» volando nel vento?
- Io... Io non lo so, andiamo … Noi voliamo nel vento. Tu dove vai?
- Viaggio per il mondo per trovare una cosa.
- Cosa cerchi foglia curiosa?
- Cerco nel mondo ciò che è dentro di me.
- Dunque tu sei folle? Hai perso te stessa e addirittura ti cerchi nel mondo?
- No, io conosco me stessa e ora sto conoscendo il mondo, cercando in esso ciò che già è dentro di me. Se non conoscessi me stessa, cosa cercherei di inerente a me nel mondo? Farei meglio a starmene laggiù, insistentemente arginata al suolo, tanto la mia condizione non cambierebbe.
- Dunque secondo te io dovrei fermarmi ?
- Dipende, tu chi sei?
- Te l'ho detto, questo proprio non lo so, sono solo una foglia..
- Ho capito!
- Dunque che cosa devo fare, foglia curiosa? Non so chi sono, ma non voglio continuare così.
- Forse dovresti scegliere «solo una foglia».
- Scegliere cosa?
- Scegliere se fermarti o viaggiare, per esempio.
- E perché dovrei farlo?
- Perché,vedi, scegliendo, cominceresti ad essere non più solo una foglia, ma un'irripetibile foglia che vola leggera.
lunedì 4 luglio 2011
Un'insolita esistenza
di Stefania Guglielmo
La luna, una sera, parlava alle stelle. Luminose, numerose, vanitose e belle, esse le stavano intorno, quando, incantate dalla sua saggezza, le chiesero perché il sole, come loro una stella, superbamente si ostinava a stare da solo.
La luna, davanti alle luci perplesse delle stelle, sorrise e così cominciò:
«Lo riconosco, il sole è una stella diversa da voi per le sue caratteristiche, ma non è per questo che lo vedete andar via. Il sole è una stella insolita, forse è proprio la sua atipica grandezza che non sa contenere quando è in compagnia, eppure ogni volta che il turno cambia e ci incrociamo sa rendere intenso anche il momento più breve.»
Domandarono allora le stelle: «perché parla a te, o luna, ma non a noi altre? Lo vedi, il sole è superbo e per questo rimarrà sempre da solo!»
La luna riprese a sorridere, quasi le affermazioni delle stelle destassero la sua allegria, e così spiegò: « io ho guardato il sole mirando alla sua semplicità, non mi sono aspettata nulla da lui e l’ho trattato al pari di ogni stella, ma, a differenza di tutte le altre, lui mi ha mostrato la sua vera grandezza, che non consiste nella luce che voi tutte emanate: il sole, infatti, mi ha mostrato i suoi lati più bui, quei lati profondi che una stella non mostra mai, che nessuno scorge e che poche stelle hanno il coraggio di curare.»
«Ti ha mostrato il buio? Vuol proprio fare il bizzarro!» », commentarono tra striduli risolini le stelle.
E la luna: « Sì, comprendo il vostro stupore; d'altronde, il buio oggigiorno non è cosa gradita per una stella e il Sole ha quest’insolita abitudine di custodirlo. Eppur mi chiedo, mie care, cosa ne sarebbe della luce se non ci fosse il buio da illuminare?
Quando emanate la vostra luce, tutti vi notano insieme a me, poiché siamo attorniate dal buio della notte … Ma quando c'è luce non si nota con pienezza il sole, il quale appare così lontano e diverso che nessuno si spingerà mai a conoscerlo realmente. Molte saranno le ipotesi sulla sua struttura e il suo destino, c’è chi lo vedrà meraviglioso e chi invece lo maledirà; chi, come voi, lo vedrà superbo e troppo sicuro di sé solo perché si distingue da una comune stella e non si accorda alla consuetudine del suo moto omologato. Sappiate tuttavia che mentre tutte voi stelle vi occupate di rispettare le convenzioni dettate dalle illusioni della routine, giudicando male chi dissente da voi, lui sarà lì, incurante di ciò, a custodire quei lati bui che sfoggia sereno nell'attesa di qualcuno che si spinga con curiosità a scoprire la sua vera essenza, appagato dalla consapevolezza di godere della virtù più vera: la forza di vivere l’individualità della propria esistenza.
Il sole – e chi come lui – mostra la sua grandezza a coloro che sanno osservare, e ciò non è da superbi. Il sole lascia dietro sé quel buio che consente a voi altre stelle di emanare le vostre luci; è sempre lui, inseguito, a illuminare il tutto, nascondendo le vostre deboli fiamme nel tentativo di svegliare il vostro desiderio di accrescerle e voi, come se foste degli occhi ciechi che guardano senza vedere infiniti colori, non fate che andare alla ricerca dei lati oscuri di un’enorme sfera di luce.»
mercoledì 22 giugno 2011
Filosofia
di Stefania Guglielmo
La filosofia è una scienza che non tende a realizzare praticamente qualcosa.
La filosofia è una scienza compresa da pochi, eppure conosciuta inconsapevolmente da molti.
La filosofia è meraviglia; si potrebbe parlare di filosofia non appena si instaura un rapporto con la propria meraviglia.
La filosofia è meraviglia; si potrebbe parlare di filosofia non appena si instaura un rapporto con la propria meraviglia.
La meraviglia è lo stupore, quella propensione alla grandezza ed è propria dell’uomo.
La filosofia è ricerca disinteressata, è ricerca continua di risposte intimamente indispensabili, eppure non praticamente e immediatamente utili.
La filosofia è ricerca disinteressata, è ricerca continua di risposte intimamente indispensabili, eppure non praticamente e immediatamente utili.
La filosofia è forse l’unica scienza che non necessita di rigorose nozioni, ma nasce spontaneamente dove si sviluppa la meraviglia.
La filosofia è forse l’unica scienza che si può possedere senza saperlo.
La filosofia non è una dottrina alla quale aderire, non ha limiti né pretese, la filosofia è il rapporto con la propria vita.
La filosofia è attenzione che produce maggiore attenzione al fine di produrre consapevolezze.
La filosofia è applicabile a ogni campo, perché la filosofia è il rapporto dell’uomo con se stesso e in seguito con tutte le cose.
La filosofia è applicabile a ogni campo, perché la filosofia è il rapporto dell’uomo con se stesso e in seguito con tutte le cose.
La filosofia è la cura incondizionata di ogni domanda che ci si pone la sera.
La filosofia non è e non ha verità, essa è esclusivamente il richiamo più forte e più dolce della verità.
La filosofia è facile poiché è proprio dell’essenza umana il partecipare dell'esperienza.
La filosofia è facile poiché è proprio dell’essenza umana il partecipare dell'esperienza.
La filosofia è difficile perché difficile è per molti affermare a cosa essa serva.
La filosofia è difficile perché oggi ciò che non è palesemente e praticamente utile non serve.
La filosofia è praticamente utile poiché ricerca le cause e i principi come tutte le scienze, ma le sue cause e i suoi principi riguardano quella dimensione urlante dell’uomo che, pur venendo costantemente e brutalmente ignorata, acutizza sistematicamente e instancabilmente il proprio richiamo.
La filosofia è praticamente utile per vivere la vita in profondità, con personalità e nella verità.
La filosofia è praticamente utile per non vivere la vita senza conoscerla e poi trovarsi disarmati quando essa, con audacia, si presenta.
La filosofia è praticamente utile per vivere la vita in profondità, con personalità e nella verità.
La filosofia è praticamente utile per non vivere la vita senza conoscerla e poi trovarsi disarmati quando essa, con audacia, si presenta.
La filosofia è in ognuno di noi.
domenica 12 giugno 2011
Normalità o alterità?
di Stefania Guglielmo
«Ognuno di noi è una contromarca d’uomo, in quanto che è tagliato come sogliole, è di due uno e però cerca sempre la propria metà. […] ma quanti sono una fetta di maschio danno la caccia al maschio e finché sono ancora fanciulli amano gli uomini e godono a giacere e a starsene abbracciati con gli uomini e questi sono tra i fanciulli e i giovinetti migliori, perché i più virili di loro natura. Certo non mancano quelli che li chiamano impudenti ma mentiscono. […] e se ad essi nel momento in cui giacciono insieme si presentasse Efeso con i suoi strumenti alla mano e chiedesse loro : “che volete, o uomini, che avvenga di voi, all’uno per opera dell’altro? Desiderate voi soprattutto essere nello stesso luogo l’uno con l’altro in modo da non separarvi mai né di notte né di giorno?” […] a udir ciò sappiamo bene che nessuno, proprio nessuno, risponderebbe di no, né mostrerebbe d’aver mai desiderato altro, ma crederebbe d’aver udito precisamente ciò che egli desiderava da tanto tempo: di sentirsi unito e fuso con l’amato e divenuto di due un essere solo. E la ragione è appunto questa: che tale era in origine la nostra natura e che eravamo interi. Ebbene al desiderio e alla caccia dell’insieme si da il nome di amore».
Platone, Simposio, Discorso di Aristofane
Sono queste le parole che l’ateniese Platone poneva in bocca ad Aristofane in uno dei suoi più noti dialoghi. La circostanza era la medesima: una riunione tenutasi in casa di Agatone, alla quale prendevano parte alcuni intellettuali del tempo, prefiggendosi di celebrare Eros, il dio greco dell’amore. Si parlava dunque di cosa fosse l’amore, delle sue origini e delle sue conseguenze e, a tal proposito, arrivato il suo turno nella catena simposiale, Aristofane – al fine di illustrare ai convitati la sua concezione dell’amore – proferisce un discorso sulla genesi degli uomini. Era sferica, per il commediografo, la forma originaria degli esseri umani, ma in seguito venne spezzata in due per ira divina, costringendo gli uomini alla ricerca perenne della propria metà perduta. Aristofane tratta poi dell’amore fra uomo e donna nato dalla divisione delle sfere composte dal sesso originato dal sole (il sesso maschile), e da quello originato dalla Luna (il sesso femminile), ma parla anche dell’amore fra donna e donna e di quello fra uomo ed uomo, quest'ultimo generato dalla divisione delle sfere di sesso androgino. Distingue così tre sessi NATURALI dell’uomo ma li fa convergere nell’unico discorso che riguarda Eros, il quale, a pari livello e dignità, li colpisce tutti indistintamente.
Non vi era dunque distinzione all’interno dell’amore nel mondo greco, anzi, un'ipotetica distinzione risultava inconcepibile poiché l’intensità e la veridicità di Eros non poteva dipendere dal sesso dell’amante, quanto piuttosto dal suo desiderio di sentirsi unito con il proprio amato. Inutile precisare che, nonostante il pensiero occidentale moderno affondi le proprie radici nel mondo greco, la concezione dell'amore all'interno della società odierna è notevolmente cambiata.
Oggigiorno, il rapporto uomo-donna viene ritenuto espressione della «normalità» e, allo stesso modo, le altre tipologie di rapporto sono considerate «altre» rispetto al «normale». Oggi è «malato» e quindi «bisognoso di aiuto» chi non è «normale»: ma siamo sicuri che le caratteristiche più diffuse, le uniche degne di nota, siano quelle della supposta «normalità»?
Persino la religione maggioritaria in Italia, quella cattolica, sulla base dell'interpretazione della Bibbia, giudica la coppia eterosessuale come unica depositaria dell’immagine di Dio. Alcuni critici sostengono che in realtà Gesù Cristo non si sia mai espresso a riguardo e che, addirittura, la concezione cattolica contraddice lo stesso messaggio messianico, considerando l’omosessualità alterazione della normalità e limitandone i diritti. Tuttavia, al di là di qualsivoglia professione di fede o ideologia, è opportuno che almeno all'intero degli ambienti istituzionali – le scuole o gli uffici per esempio, venga finalmente adottato un atteggiamento coerente, coscienzioso, comprensivo e tollerante nei confronti della naturale diversità degli orientamenti sessuali relativi ad ogni singola persona.
Si pensi alle classi numerose di oggi, nelle quali viene impartito l'insegnamento della religione cattolica: spesso esse annoverano una vasta gamma di adolescenti che nell’ambito delle loro profonde diversità individuali hanno il sacrosanto diritto di non sentirsi definiti «anormali», «diversi» o protagonisti di situazioni drammatiche. E' una violenza psicologica bella e buona la pretesa di etichettare come portatori di anomalie (o addirittura di «malattie») qualsiasi tipo di individuo e, per chi volesse impostare una discussione di carattere etico, sarebbe certo maggiormente amorale arrogarsi il diritto di giudicare le preferenze sessuali degli altri piuttosto che condurre la propria vita – con coerenza e nel rispetto della legge e del complesso dei cittadini – attuando liberamente le proprie scelte.
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