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sabato 24 dicembre 2011

Tanti auguri a tutti i lettori di Agoghé

Lo staff di Agoghé.com augura a tutti di lettori un piacevole periodo festivo.

giovedì 1 dicembre 2011

Religione? Scienza? O entrambe?


di Manlio Adone Pistolesi

I primi uomini dovettero affrontare varie difficoltà. Alcuni fra i più noti filosofi greci e romani si interrogarono sul perché Dio non ci dotò di artigli, zanne, velocità ecc... Ma oggi, dopo una breve evoluzione, possiamo rispondere dicendo che Dio ci ha dotato dell'intelligenza, la quale ci ha permesso di dominare il mondo conosciuto fino ad ora. Proprio l'intelligenza é una delle caratteristiche che ci contraddistingue dagli animali. All'inizio però, forse per la paura che i nostri antenati avevano verso l'ambiente circostante, l'unica spiegazione che il nostro intelletto poteva dare riguardo i fenomeni naturali fu la manifestazione di qualche essere soprannaturale: gli dei.
Dall'Africa alle Americhe, dall'Oceania all'Eurasia ogni popolazione aveva i propri dei, con diversi poteri e caratteristiche. Le prime religioni, che credevano in una pluralità di dei, erano solo dei tentativi da parte del nostro cervello di spiegare fenomeni all'apperenza strani e pericolosi: tempeste, terremoti, esplosioni vulcaniche, frane ecc.... Le diverse poleis greche, in particolare, consideravano la loro religione politeista un esempio di civiltà. Infatti le loro divinità, con sembianze umane, dovevano rispiecchiare la "società-tipo" greca. Non dobbiamo però dimenticare che ogni dio aveva i suoi difetti, che a loro volta rappresentavano le pecche del genere umano.
Uno "strappo alla regola" fu attuato da una piccola nazione, esistente ancora oggi. Il popolo israelita all'epoca differiva dalle altre popolazioni residenti in Asia minore soltanto per via della religione: essi credevano in un solo Dio, Jahvé. Ma questo piccolo Stato fu presto conquistato dalle popolazioni confinanti, gli israeliti furono costretti alla diaspora, ovvero ad una dispersione.
Tornando ad oggi, si nota una netta prevalenza delle religioni monoteistiche, che professano la credenza in un unico dio. Quindi, come tutto ciò che conosciamo, anche la religione ha avuto una sua "evoluzione".
Ma come é arrivata fino a noi la religione monoteista? Con la conquista romana del Medio Oriente tutte le popolazioni che prima si erano combattute una contro l'altra ora si trovano sotto la stessa bandiera: le guerre non sono più necessarie, anche perché Roma trattava gli stati conquistati con una certa tolleranza per evitare che un'ipotetica ribellione interna causasse il tracollo dell'impero, come era successo agli Assiri qualche migliaio di anni prima. Gli ebrei che erano rimasti cercarono di diffondere la loro dottrina ma senza successo dato che erano circondati da pagani. La religione cristiano-cattolica crede nella venuta di un Messia, Gesù Cristo, il figlio di Dio, che ha eliminato il peccato originale.
Questa nuova religione conquistava il mondo intero con i suoi ideali e le sue promesse, ma allo stesso tempo eliminava le religioni pagane che dall'inizio avevano influenzato la concezione umana della natura. Ciò aprì tuttavia anche una nuova strada, meglio conosciuta come Scienza. Infatti, se ora la religione spiegava che esisteva un solo Dio, molti eventi e fenomeni naturali rimanevano senza una spiegazione "logica". Un esempio è costituito dai temporali, che secondo gli antichi erano scaturati dal martello del dio vichingo Thor, oppure le eclissi lunari e solari, provocate dalle fauci di un enorme lupo nel cielo che inghiottiva i due astri.... Nonostante gli antichi matematici, scienziati e filosofi fu la religione a creare la scienza moderna.
L'impero romano lasciò in eredità all'Occidente la religione cristiano-cattolica. Dopo il Medioevo, la civiltà umanistico-rinascimentale rappresentò appunto una "rinascita" delle scienze e delle arti. Ma tutte le nuove scoperte relative alle scienze naturali, vecchie o nuove, come ad esempio l'eliocentrismo, furono avversate dalla Chiesa, che interpretava la Bibbia come un testo scientifico.
Gli illuministi del '700 incarnavano l'ideale di Scienza tanto osteggiato dalle gerarchie ecclesiastiche, con le loro tesi e le loro leggi costoro mettevano a rischio la veridicità del Papato. Non mancarono le persecuzioni.
Secondo me, uno dei più grandi scienziati che sia mai esistito fu Charles Darwin, autore del libro "Origine ed evoluzione delle specie". In questo testo Darwin spiega come ogni animale, compreso l'uomo, abbia seguito un'evoluzione lunga e diversificata. Lo scienziato non perse mai la fiducia nella fede, se non alla morte della moglie. Nel corso del libro non nega alcuno dei dogmi cattolici, ma specifica che la Terra e l'Universo non sono una "diretta" Creazione di Dio.
Personalmente io credo nella conciliazione fra Scienza e Religione. D'altronde perché non ci potrebbe essere un Dio che "spinga" l'Universo? Scienza e Religione potranno mai andare d'accordo? O una riuscirà a distruggere l'altra?

mercoledì 30 novembre 2011

Tchaikovsky, non un compositore ma un poeta


di Vittorio Calogero


Pyotr Ilyich Tchaikovsky è stato un compositore dell'Ottocento Europeo, noto per Lo schiaccianoci, Il lago dei cigni, La bella addormentata – trio di balletti eseguiti in tutto il mondo – e March of toys.
Alcune volte componimenti per orchestrali come il Nabucco di Verdi, il Barbiere di Siviglia di Rossini, il Bolero di Ravel, il Requiem di Mozart e molti altri sono definiti come semplici brani orecchiabili, ma per la loro bellezza e per le loro caratteritiche devono esser definiti semplicemente come pura poesia.
Questo è il caso di uno dei più grandi componimenti per violino e orchestra, il Concerto per violino in Re maggiore Op. 35 di Tchaikovsky. Dopo le prime critiche, il brano divenne in pochissimo tempo, grazie alle numerose esecuzioni in Europa – specialmente al teatro Bolshoi di Mosca, patria di Tchaikovsky –, uno dei più importanti concerti per violino.
Il componimento si divide in tre parti:
I) Allegro moderato.
II) Canzonetta o Andante.
III) Allegro vivacissimo.
La maestosità di questo brano si manifesta nella prima parte, dove il tema con le note alte, stridule del violino e il tempo moderato, che rievoca i momenti tristi e malinconici, lascia spazio improvvisamente alle volatine, alle scale e agli arpeggi dello stesso solista, con numerosi cambi di tempo, e si contrappone sempre allo stesso tema, questa volta riproposto dall'orchestra, ma in un tempo molto più allegro.
La prima volta che ho sentito questo brano è stato nel corso del film "Il concerto", basato proprio su questa composizione di Tchaikovsky, ed è stato "amore a prima vista". Per cinque giorni non sono riuscito ad ascoltare nessun altro brano oltre questo: mi aveva colpito molto, sia per le volatine e per gli arpeggi veloci del solista, sia per la bellezza del tema riproposto, nel movimento maestoso e in quello triste.
Altro che Giovanni Pascoli, questa sì che è una poesia.

giovedì 24 novembre 2011

Breve storia della scrittura

di Manlio Adone Pistolesi

La scrittura è stata una delle invenzioni piú importanti della storia; quest'ultima non esisterebbe senza l'invenzione della scrittura. Non si conoscono precisamente le origini di essa, ma la piú antica appartiene ai Sumeri che rappresentavano oggetti e parole con dei cunei; da questa rappresentazione deriva il termine «cuneiforme».
In Paesi piú o meno lontani, la scrittura assomigliava molto a quella sumera, basti pensare ai geroglifici egizi. Ma su qualcosa tutte le scritture concordano: il fine di lasciare una traccia ai posteri: narrazioni di guerre, poesie, opere teatrali e tutto ciò che ci ha permesso di comprendere il passato. Il termine «storia», senza queste fonti di sapere scritte, non esisterebbe. Si definisce comunemente «storia» il periodo che va dalle piú antiche scoperte relative alla scrittura ad oggi. La «preistoria», ciò che viene prima della «storia», viene così chiamata perché non si possiedono fonti scritte sulle quali fare affidamento, quindi le uniche cose che ci possono informare su di essa sono i ritrovamenti archeologici.
Però, se ci pensiamo, la scrittura si é evoluta fino ad oggi. Infatti, non tracciamo più cunei, geroglifici o ideogrammi. La nostra scrittura, il nostro patrimonio cartaceo, deriva dall'alfabeto fenicio. Questo popolo di marinai e navigatori, non potendo espandersi lungo i confini della loro madrepatria, decise di andare alla conquista dell'Ignoto. I Fenici, infatti, non sapevano cosa li aspettasse o cosa avrebbero trovato al di fuori del Libano (l'odierno stato che sorge sull'antica patria dei Fenici). Per questo, anche per via delle piccole navi che avevano in possesso, svolsero un viaggio "costa a costa". Ciò gli permise di attraversare tutto il Mediterraneo da tappa in tappa, e con essi portarono anche il loro sapere, insieme alla loro scrittura. I Fenici non sono ricordati come grandi conquistatori, ma come colonizzatori; popolarono infatti soprattutto i villaggi costieri, diffondendo la loro lingua e la loro scrittura, composta solo da simboli consonantici.
La fase evolutiva del nostro odierno alfabeto, tuttavia, non é ancora completa: l'ultimo miglioramento é stato apportato dai Greci. Non sappiamo ancora con certezza perché le poleis greche cambiarono lingua, dalla lineare B all'alfabeto fenicio, ma esse, dopo un "periodo buio" dovuto all'invasione dei Dori, adottarono la nostra odierna scrittura con l'aggiunta delle vocali alfa, epsilon, eta, iota, omicron, ypsilon e omega.
Oggi le lingue nel mondo sono diverse, ma ognuna ha qualcosa in comune con l'altra. I linguisti, studiando le lingue antiche, si sono accorti che molte si assomigliavano, e tuttora quelle che sono derivate da esse mantengono alcune somiglianze con lingue all'apparenza molto diverse. Una delle ipotesi sostenute riguarda l'influenza di un popolo originario delle steppe russe. Secondo gli studiosi questi popoli discesero dalla Siberia e si divisero "a ventaglio": alcuni andarono oltre il fiume Indo, altri verso il Vicino Oriente e l'Europa. Quindi la nostra lingua potrebbe derivare da alcuni popoli capaci di "colonizzare culturalmente" tutti gli altri.
La scrittura era, è, e sarà il mezzo con cui potremo narrare e descrivere la Storia della nostra specie. Mentre scrivo questo articolo, sto facendo storia. Come disse Theodore Roosevelt, «per conoscere il futuro bisogna conoscere il passato, perché prima o poi questo si ripete».

I giovani e l'alcol


di Samuele Tripodi

Il consumo di alcolici tra i giovani sta diventando un problema a causa dell’età sempre meno elevata dei bevitori. Quali sono le cause del fenomeno ed i possibili mezzi per arginarlo?
Oggigiorno i giovani hanno tantissimi modi per divertirsi grazie ai tanti parchi-gioco, campi sportivi, palestre, e le molte altre risorse di svago che le moderne città ci offrono. Nonostante tutte queste attrattive i giovani aspettano il sabato sera per svagarsi, per smaltire tutto lo stress accumulato durante la settimana. Ciò che preoccupa maggiormente non è tanto il divertirmento del sabato sera, ma il modo in cui ci si diverte.
Le statistiche evidenziano che giovani fanno uso di alcol e le percentuali sono molto preoccupanti. Gli italiani, senza distinzione d’età, che dichiarano di bere alcolici almeno un giorno alla settimana sono più del 70%. Tra i giovani dai 15 ai 25 anni, tre su quattro fanno abitualmente consumo di alcool, circa il 74%. Ma non è tutto: negli ultimi anni le statistiche dimostrano che le ragazze bevono molto di più! Sono circa il 67% le ragazze che iniziano a bere alcolici prima del quindicesimo anno di età.
Purtroppo, questo problema sta prendendo il sopravvento sui giovani d’oggi; che fare allora?
I genitori dovrebbero essere più presenti con i loro figli, dovrebbero stargli accanto in tutti i momenti, specie in quelli di difficoltà, perché la principale causa dell'alconismo giovanile coincide con l'assenza o il mancato controllo delle figure-cardine del contesto familiare. Da parte loro, i giovani non devono annegare i loro problemi nell’alcol, anche perché questa sostanza non fa altro che alimentarli.

domenica 20 novembre 2011

Chi siamo? Da dove veniamo? Perché siamo qui?


di Manlio Adone Pistolesi

Molti filosofi, poeti e scienziati ci hanno definito come un agglomerato di polveri stellari, un miscuglio di elementi chimici, un complesso gruppo di pensieri e immaginazioni... Altro non siamo che un frutto dell'evoluzione: un insieme di casi fortuiti che hanno contribuito alla nostra origine.
Ma perché noi?
Grazie ad un insieme di eventi quali una posizione favorevole del pianeta nello spazio e ad altri accadimenti catastrofici che hanno fatto estinguere le grandi lucertole carnivore ed erbivore, i mammiferi hanno potuto incominciare a conquistare il pianeta Terra e ad evolversi fino alle forme attuali.
I nostri antenati, le scimmie antropomorfe, non erano molto diverse da quelle di "oggi". La vera differenza sta nella capacità di camminare. Infatti, al contrario di ciò che molti credono, le scimmie incominciarono ad acquistare una spiccata curiosità quando scesero dagli alberi delle foreste e incominciarono a camminare su due zampe. Questo semplice atto fu per noi il "primo passo" verso una veloce evoluzione che ha come prodotto il genere umano.
Insomma, il genere umano non é altro che un caso fortuito, un prodotto inaspettato dovuto a condizioni favorevoli. I primi uomini non solo dovevano sfidare la natura, ma anche l'evoluzione. La postura eretta comportò diversi cambiamenti. L'uomo stando alzato sui due arti posteriori, nonostante la piccola altezza – 1,30/1,50 metri –, poteva osservare il mondo con tutt'altra prospettiva. Poteva avvistare i predatori e le prede a distanza, e questo comportò un'evoluzione della sua vista. Con la postura eretta poteva raggiungere gli alberi e raccogliere frutti. Questo cambiamento posturale modificò anche il corpo stesso dei nostri antenati: l'osso del piede si abbassò fino a toccare terra ed ebbe una maggiore aderenza al suolo, sviluppando ulteriormente la capacità di corsa. La schiena si raddrizzò e le mani, che fino a quel momento erano servite per poter camminare, diventarono futili; per questo motivo, i nostri antenati – i vari Homines – cercarono di impiegarle in altro modo. Quindi, dal piccolo atto di un quadrupede che diventa bipede, si genera una specie nuova, progredita e pronta a conquistare il mondo. Sin dai primordi della storia a noi conosciuta l'uomo ha cercato sempre di migliorare la sua vita attraverso le innovazioni tecnologiche. Le diverse innovazioni tecnologiche e scientifiche, sempre più rivoluzionarie, che l'uomo attuò, servivano a dominare la natura circostante, terrificante e brulicante di pericoli.
L'essere umano é dunque il frutto di un'evoluzione complessa e diversificata. La storia dell'uomo, confrontata con la nascita del pianeta e paragonata ad un coevo calendario, rappresenta soltanto l'ultimo minuto del 31 dicembre. Questo dimostra quanto la nostra evoluzione sia stata veloce e pericolosa, se teniamo conto di tutti fenomeni catastrofici che abbiamo dovuto affrontare.
Oggi, possiamo definirci come i dominatori della Terra. Ma saremo capaci di gestire il nostro pianeta? Svilupperemo macchinari futuristici capaci di migliorare ulteriormente la nostra vita? Raggiungeremo mai altri Esopianeti? A quali ostacoli andremo incontro?
Come disse Einstein in uno dei suoi celebri aforismi, «Non sarei un vero scienziato se non credessi all'ignoto».

lunedì 14 novembre 2011

A CACCIA DI LUOGHI COMUNI: breve storia delle dissimulazioni religiose al potere

di Natale Zappalà (*)


Le religioni per così dire statali (quelle istituzionalizzate, o comunque percepite come “ufficiali” all'interno di un gruppo umano) hanno sempre svolto, da un punto di vista strettamente politico, il delicato ruolo di inquadrare il corpo civico, tenendone a freno e condizionandone il pensiero, attraverso ciechi dogmatismi o formalismi meccanici. D'altro canto, gli uomini di potere, consci di tale pregevole valenza, hanno sempre saputo celare dietro uno spietato pragmatismo un'ipocrita apparenza di pietas; in altre parole, mostrandosi ligi nel seguire ideologie, prescrizioni e ritualismi delle religioni tradizionali agli occhi del popolino, nel privato se la ridevano dell'ignoranza e della creduloneria della gente comune.
Tanto per fare qualche esempio illustre, nell'Egitto della XVIII Dinastia (XIV sec. a.C.), il faraone Akhenaton inventò la prima forma documentata di monoteismo, il culto del disco solare Aton, soprattutto per sottrarre alla casta scribo-sacerdotale devota di Amon-Ra (il sole mitologico) il prestigio derivante dal monopolio delle pratiche religiose connesse con templi, sacrifici e offerte. Questioni politiche ed economiche dunque, sapientemente mascherate dal ricorso all'ultramondano.
All'interno del mondo greco-romano la religione – il cui ciclo di festività aveva anche la funzione di scandire il tempo e ricompattare le cittadinanze attraverso processioni o banchetti rituali – si risolveva essenzialmente in un legame contrattuale fra uomini e dei: i primi onoravano i secondi, riservandogli l'onore (timé) che gli spettava, il tutto al fine di scongiurare un ipotetico castigo divino; questo, almeno, era quello che credevano le masse. Tale aspetto prettamente ritualistico induceva tutti coloro che avvertivano l'esigenza di intrecciare rapporti più “spirituali” con il mondo soprannaturale, rifugiandosi in culti maggiormente coinvolgenti come quelli misterici, durante i quali i fedeli ritenevano di instaurare un contatto diretto (detto di sympatheia, «patire insieme») con la divinità. Ciò non impediva a personaggi autorevoli come Alcibiade nell'Atene del V sec. a.C. di sbeffeggiare i celebri misteri eleusini, parodiando in casa propria quelle stesse cerimonie, per altro segretissime e aperte ai soli iniziati, in cui i suoi concittadini mostravano di credere così sinceramente.
Ma il primo posto nella speciale classifica dei grandi dissimulatori religiosi dell'antichità spetta sicuramente a Giulio Cesare, capace di conciliare una spiccata e snob laicità fattuale con l'esercizio della massima autorità sacrale romana, il pontificato massimo. In un contesto dove ogni azione pubblica era accompagnata dall'esecuzione di riti beneaguranti, gli auspicia, fu capace, quando inciampò malamente sbarcando in Africa durante la guerra civile, di volgere in positivo il presagio funesto, gridando: «Teneo te, Africa!» («Ti tengo, Africa).
L'avvento del cristianesimo non mutò l'atteggiamento degli uomini di potere: Costantino ne liberalizzò il culto per convenienza politica, avendo scorto nell'organizzazione ecclesiale, naturalmente gerarchizzata e dotata di un controllo capillare sul territorio, un efficace potere suppletivo delle autorità municipali romane in decadenza.Tuttavia, il buon imperatore non ne volle mai sapere di battesimo, se non in punto di morte e, per di più, ricevendo il sacramento da un vescovo ariano, un “eretico” per la Chiesa di Roma.
La lista degli aneddoti sulle dissimulazioni religiose dei potenti sarebbe troppo lunga se si enumerassero tutti i casi che affollano la Storia. Basterà, limitandoci alla Storia dell'Occidente e alla categoria dei papi, precisare che molti di essi, specie i più dotti (come Silvestro II, il “papa-mago” dell'anno Mille o Pio II, al secolo l'umanista, nonché autore di racconti erotici, Enea Silvio Piccolomini), furono tacciati di “ateismo”, proprio perché, al riparo delle esigenze spirituali delle moltitudini, se ne ridevano di dogmi e prescrizioni. Per non parlare poi di tutti quei pontefici – da Bonifacio VIII ad Alessandro VI, i riferimenti pullulano – che fornicarono, procrearono, specularono, raccomandarono e, soprattutto, strumentalizzarono politicamente il proprio primato sui cattolici, con buona pace della povertà evangelica, dei dieci comandamenti e di tutte le norme alle quali i fedeli erano invitati a conformarsi; «fa' come il prete dice, e non come il prete fa!», il motto è azzeccatissimo. Persino oggigiorno i beninformati sono pronti a giurare che nel segreto delle stanze vaticane il teologo Benedetto XVI la pensi diversamente da ciò che sostiene in pubblico circa la transustanziazione, l'omosessualità, il celibato dei preti, i rapporti sessuali prematrimoniali o sull'uso del preservativo.
Un uomo di potere, se si mostra “pio” risulta sovente bene accetto agli occhi del popolo, e questo a prescindere dal ruolo che egli ricopre; non a caso i capi di stato sono soliti farsi riprendere dalle telecamere quando vanno in chiesa o in moschea. Insomma, la Storia non è cambiata, e come sosteneva il cardinale Richelieu «saper dissimulare è la scienza dei re»; specie quando si tratta di religione, aggiungiamo noi.

(*) Fonte: www.natalezappala.it

lunedì 7 novembre 2011

«No, mi scusi, stavo pensando»

di Stefania Guglielmo

Viveva in un piccolo borgo un uomo curioso che, proprio a causa della sua estrema invadenza, era solito fermarsi a parlare con chiunque destasse il suo interesse.
Fu così che una mattina di fine estate scorse, adagiato su una sedia a guardare il mare, un uomo pensieroso, e subito si chiese a cosa stesse pensando quel misterioso personaggio.
L’interesse in lui era così vivo che il curioso si accomodò affianco all’uomo assorto.
Per i primi minuti rimase in silenzio e lo osservò mentre l’altro uomo non notò la sua presenza, tanto era concentrato ad inseguire i suoi pensieri; accadde così che più trascorreva il tempo in cui egli lo osservava, più quel bizzarro modo di fare accresceva la sua curiosità.
L’uomo curioso finalmente cedette e così esordì:
«Buongiorno!»
Ma non ottenne risposta; l'uomo era così pensieroso da non udire le parole del curioso! Allora, imperterrito, ripeté con voce più acuta:
«Buongiorno!»
A quel punto l’uomo pensieroso sussultò e rispose:
«Buon… Buongiorno! Mi scusi, stavo pensando».
«Eh... L’ho notato! A cosa pensava di così importante ?», chiese il curioso.
«Pensavo alla mia vita», rispose l'uomo meditabondo.
«Se potessi ascolterei la sua storia. Mi incuriosisce, lo sa? Lei stava pensando a qualcosa di troppo intenso per accorgersi di ciò che le accadeva intorno», controbatté il curioso.
«In realtà io credo che non le piacerebbe udire la mia storia; se potessi la cambierei!»
L’uomo curioso, dopo questa enigmatica affermazione, non riuscì a contenere oltre la sua sete di conoscenza, e così insistette finché il suo interlocutore non iniziò a narrare le molteplici peripezie da lui vissute. Sembrava proprio sfortunato!
Tuttavia, mentre l’uomo curioso iniziò a chiedersi fra sé e sé come potessero accadere tante sciagure ad un solo individuo, giunse un altro personaggio, che subito catturò il suo volubile interesse. L'uomo assorto ne approfittò per estraniarsi di nuovo dal resto del mondo.
L’uomo curioso, voltatosi, aveva scorto un giovane ragazzo dal sorriso luminosissimo e gli domandò chi fosse. Il giovane cominciò così a descriversi con allegria, parlando con consapevolezza di ogni suo sogno e di ogni sua idea. Dopo di che si avvicinò all’uomo pensieroso, e sfiorandogli la spalla gli chiese:
«Come stai papà? Ti va di sapere cos'ho fatto oggi ?»
L’uomo pensieroso, inizialmente stupito, annuì, e così il ragazzo cominciò la sua narrazione, ma, sorprendentemente, durante il discorso del figlio, il padre si estraniò nuovamente, e quando il giovane chiese la sua opinione si accorse di non essere ascoltato già da un pezzo.
Se ne andò profondamente deluso, rimanendo ancora più frustrato nell’accorgersi che il padre non aveva notato la sua assenza.
L’uomo curioso, che aveva attentamente assistito alla scena, rimase esterrefatto, e così decise, per un mese intero, di tornare tutte le mattine a sedere con quell’uomo pensieroso.
Con l’andar del tempo, si accorse che il fanciulo, che speranzosamente tentava di dialogare col padre, diveniva gradualmente sempre più cupo, duro e chiuso, e finì per evitare qualsiasi domanda postagli da quell’uomo che mai udiva le sue risposte.
Trovandosi lì, un giorno, l’uomo curioso notò qualcosa di diverso nello sguardo del fanciullo, e quasi senza riconoscerlo gli chiese chi fosse…
Questi, stupito, chiese se fosse davvero interessato a saperlo, ma, dopo l’entusiasmo iniziale – che che per un attimo gli restituì le sembianze d’un tempo –, incupitosi, proferì tali parole:
«Io non sono degno di essere ascoltato». Si alzò di fretta e fuggì via.
Atterrito da ciò che aveva udito, il curioso si voltò verso l’uomo pensieroso, ancora assorto, richiamò la sua attenzione e gli chiese:
«Com'è potuto succedere tutto ciò? »
Questi lo guardò perplesso e poi rispose:
«Di cosa parla buon uomo?».
«Non si è accorto proprio di nulla?», disse l'altro.
E l’uomo pensieroso così concluse:
«No, mi scusi, stavo pensando».

venerdì 28 ottobre 2011

“Il silenzio degli innocenti”: una recensione fra brivido e coinvolgimento


di Vittorio Calogero

Jodie Foster e Antony Hopkins interpretano «il bene» e «il male» nel film diretto da Jonathan Demme, “Il silenzio degli innocenti”, terzo film (dopo “Accade una notte” e “Qualcuno volò sul nido del cuculo”) a vincere ben cinque premi oscar: miglior attore a A. Hopkins, miglior attrice a J. Foster, miglior film dell'anno, migliore regia a J. Demme e miglior sceneggiatura non originale a T. Tally.
La comparsa di un serial killer con la mania di scuoiare le proprie vittime convince il capo dell' FBI, Jack Crawford, ad affidare il caso alla giovane recluta Clarice Starling. Ben presto, l'agente si accorge che l'unica soluzione per risolvere il caso è interrogare Hannibal Lecter, ex psichiatra e criminologo, rinchiuso nel manicomio di massima sicuezza di Baltimora per aver ucciso e divorato i corpi dei suoi pazienti. L'FBI, infatti, ha il sospetto che Lecter possa sapere molto sul carattere e sulla mentalità di "Buffalo Bill", nome assegnato dall' FBI al serial killer, poichè in passato è stato un suo paziente.
Clarice, dopo esser stata avvertita sia dal suo capo che dal titolare del manicomio di non rivelare nulla della sua identità, prende un "appuntamento" con Hannabal.
Lecter mostra subito alla ragazza, oltre alla sua evidente superiorità intellettiva, anche la voglia di collaborare, ma a un patto: più indizi sulla sua vita lei gli avrebbe raccontato, più informazioni lui le avrebbe dato. Dopo aver accettato il patto, l'agente Starling scopre che la semplicità è la chiave per risolvere gli indizi di Hannibal, ed è proprio grazie al ricordo delle sue esperienze, riaffiorate con l'aiuto del cannibale, che Clarice trova un legame tra una delle vittime e il serial killer, riuscendo così a trovare ed uccidere "Buffalo Bill", il cui vero nome è Jame Gump. Nel frattempo Lecter, che viene trasferito in un altro manicomio per aver collaborato, riesce a fuggire facendo perdere le proprie tracce.
Il risultato è uno spettacolo coinvolgente, con momenti di grande suspence, ben poco consolatorio e costellato inoltre da alcune sequenze indimenticabili: i confronti dialettici fra la Starling e Hannibal, la fuga dal carcere di quest'ultimo o lo scontro finale tra l'agente dell'FBI e “Buffalo Bill”. Regia e montaggio esemplari, due attori come Anthony Hopkins e Jodie Foster, al top delle loro capacità interpretative, completano il quadro di un'opera di eccellente livello, una manna per chi ama le storie a tinte fosche.

mercoledì 5 ottobre 2011

Prove tecniche ante-comma 29

di Natale Zappalà


Il popolo del web, negli ultimi tempi, sta insorgendo contro la cosiddetta “legge-bavaglio”. Al fine di comprendere qualcosa in più sul tema, facciamo finta che oggi sia già entrato in vigore il Ddl 1415-A sulle intercettazioni, comprensivo del famigerato comma 29, quest'ultimo oggetto di feroci critiche soprattutto da parte dei portali informativi online e dei bloggers, in quanto percepito come un grave smacco all'inalienabile libertà di pensiero e di espressione.
Presentiamo dunque ai lettori un articolo di prova in cui verranno elencate miriadi di falsità:

"Il Belpaese"

In Italia si investe sempre e solo sulla cultura. Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che si tratta dello stato più civile del mondo per tolleranza, qualità della vita, prodotto interno lordo, occupazione, anche perché da sempre guidato da una classe politica illuminata e all'avanguardia, malpagata e senza alcun privilegio, caratterizzata da una condotta morale impeccabile.
Non ci sono caste in Italia: chi sbaglia paga, dal magistrato al presidente del consiglio. I cittadini godono di piena libertà di espressione e di culto; tutti possono dire o scrivere qualsiasi cosa e tramite qualunque mezzo, mentre non esistono religioni che ingeriscono negli affari di stato, che è pienamente laico. Le tasse sono pagate da tutti in modo equo e proporzionale al proprio reddito. Il welfare è ottimo e garantisce servizi essenziali alla popolazione.
Il sistema mediatico e quello relativo alla pubblica istruzione non mirano a plasmare i giovani in base agli stereotipi collaudati del tronista e della sgavettata da balletto che poi intraprende la carriera politica. L'informazione non risulta affatto condizionata da chicchessia.
Insomma, in Italia tutto va bene e nulla necessita di cambiamenti repentini o urgenti.

In questo caso bisognerà attendere che la Verità, l'unico referente che potrebbe sentirsi offeso dal succitato articoletto, presenti alla nostra redazione un reclamo in cui si dichiara il contenuto del pezzo come lesivo della propria immagine; entro 48 ore noi dovremo dunque pubblicare una rettifica volta a contestare o smentire ciò che abbiamo affermato, anche se, eventualmente, fossimo in grado di dimostrarne l'attendibilità.
Noi, tuttavia, dubitiamo che la Verità, qualora entrasse davvero in vigore il Ddl 1415-A, si farebbe avanti per rivendicare il “diritto di rettifica”. Anch'essa, insieme alla Libertà, alla Coerenza e allo Spirito Critico, sembra aver lasciato l'Italia alla ricerca di posti migliori.

NO AL BAVAGLIO!


NO ALLA LEGGE BAVAGLIO, NO ALLA CENSURA!

lunedì 19 settembre 2011

La Relatività della condizione umana


di Stefania Guglielmo
Il concetto di mondo, inteso come realtà, è generalmente un concetto noto a tutti in maniera piuttosto unitaria. Se però ci si sposta dal campo del generale a quello del particolare dunque, da un ambito più astratto ad uno maggiormente concreto –, ciò che ognuno riconosce come mondo, come realtà, risulta essere un concetto soggettivo, unico, e che non trova un corrispettivo completamente soddisfacente nel pensiero di nessun altro individuo. Il mondo e la realtà sono infatti individuali e, nel più intimo pensiero del singolo, vengono rappresentati dall’insieme delle esperienze vissute e, conseguentemente, dai luoghi, dalle persone e dalle circostanze con cui o in cui ci si è ritrovati a vivere e da cui derivano, inevitabilmente, i lineamenti fondamentali della propria personalità.
Per tale ragione, l’uomo vive nel mondo e nella realtà con una consapevolezza direttamente proporzionale alla qualità delle proprie esperienze. Sarebbe opportuno, tuttavia, precisare che la qualità delle esperienze vissute così come, più in generale, il livello del progresso scientifico raggiunto dalla società in cui si vive può accrescere la consapevolezza che l’individuo ha del reale, ma non le sue possibilità di conoscere oggettivamente il mondo e la realtà.
L’individualità e l’unicità di ogni singola esistenza si pongono come le caratteristiche principali della vita, principali e necessarie per il rispetto della più profonda essenza umana, ma, contemporaneamente, si dimostrano i limiti più grandi dell’uomo. L’individuo, infatti, strettamente ed inguaribilmente legato alla propria realtà individuale, non potrà mai prescinderne per giungere ad una conoscenza generale del mondo nella sua interezza, a meno che non riesca a trovarsi fuori da se stesso e da tutta la realtà circostante.
Da ciò si deduce che ogni uomo, possedendo la propria realtà individuale, condurrà un’indagine altrettanto individuale del mondo che conosce, nel corso della quale assumerà una centralità che, oggettivamente, nell’ambito della verità della realtà generale che eternamente sfugge, non gli appartiene.
L’individuo che giunge all’acquisizione di tale consapevolezza è un soggetto, di questi tempi, pericoloso. Il riconoscimento della relatività della posizione dell’uomo nei confronti della realtà oggettiva conduce, del resto, all’assunzione di una seconda consapevolezza: si giunge a comprendere che l’individuo è in sé propenso a sottostare esclusivamente alle verità scaturite dal suo interno, dal suo rapporto con la realtà, e che poco gli si addice, nel corso della sua vita, l’accettazione di verità dettate, invece, da realtà esterne, non interamente coincidenti con la propria, e dunque soggette ad un diverso parametro di veridicità.
Tale pensiero conduce a vivere criticamente la propria esistenza, anche se risulta paradossale nel periodo storico e sociale che stiamo vivendo, determinato a proporre con ogni forza una realtà fittizia, sempre più omologata. Il relativismo, di converso, libera l’individuo da eventuali condizionamenti di carattere sociale, religioso, etico o ideologico, permettendogli lo sviluppo di un'opinione individuale, legata esclusivamente ad un rapporto di coerenza nei confronti dei caratteri più intimi della propria personalità, spingendolo ad adottare come unico metodo per orientarsi nel mondo quello più idoneo alla sua condizione: la conoscenza di se stessi in relazione all’esperienza della propria realtà.

Stephen King: un pazzo o semplicemente un genio?

di Vittorio Calogero

Stephen Edwin King, ormai celeberrimo scrittore horror, nasce il 21 settembre 1947 a Portland, nel Maine. Suo padre, Donald Edwin King, è un impiegato della Electrolux, ex capitano della Marina Mercantile nonché reduce della seconda guerra mondiale; sua madre, Nellie Ruth Pillisbury King, è una casalinga di origini modeste. Iscrittosi in prima elementare, King passa i primi nove mesi malato. Colpito prima dal morbillo, ebbe in seguito problemi con gola ed orecchie. Curato dagli esperti, si ritira dalla scuola per volere di sua madre e passa diversi mesi in casa. È nel corso di questo periodo che King inizia a scrivere, copiando interamente fumetti a cui aggiunge descrizioni personali.
Il suo primo racconto, completamente inventato da lui, tratta di quattro animali magici a bordo di una vecchia macchina, guidati da un enorme coniglio bianco e con il compito di aiutare i bambini. All'età di circa dieci anni si stabilisce a Durham, nel Maine. Frequenta la Lisbon Falls High School e, subito dopo il primo anno, diventa direttore del giornale scolastico The Drum, assieme a Danny Emond. Il giornale avrà scarso successo, ma costerà una punizione a Stephen King che, annoiato dai soliti articoli, concepisce l'idea di realizzare un giornale umoristico prendendo in giro i vari professori. The village vomit, il nuovo nome del giornale, riscuote successo fra gli studenti, ma i professori non gradiscono i vari soprannomi affibiatigli e spediranno King in punizione per una settimana. Al termine della stessa, il giovane scrittore verrà contattato per far parte di un vero giornale, il Lisbon Enterprise, settimanale di Lisbon. Inizierà qui a scrivere riguardo a incontri sportivi e apprenderà le tecniche di buona scrittura.
Ma la domanda che mi sorge spontantea in questo momento, dopo aver narrato la storia di King fino al primo libro dell'orrore da lui pubblicato nel 1974 (Carrie), è la seguente: come ha fatto un bambino che scriveva di un coniglio che aiutava i bambini a diventare l'autore che oggi, con le sue storie, è riuscito ad ispirare registi del calibro di Stanley Kubrick, John Carpenter, Brian De Palma e David Cronenberg?
Molti sono stati gli episodi che hanno influenzato la sua scrittura. Nel 1949 il padre esce per una delle sue passeggiate, non facendo più ritorno a casa: i motivi sono da ricercare in un difficile rapporto con l'ambiente familiare. Questo avvenimento segnerà profondamente il carattere del futuro scrittore, tanto che è possibile trovare in numerosi romanzi il difficile rapporto padre-figlio (fra gli altri: It, Cujo, Christine - la macchina infernale e Shining). Un altro episodio che ha influenzato l'infanzia di King al di là della scomparsa padre, è rappresentato dalla morte di un suo amico. All'età di quattro anni, mentre i due bimbi giocano vicino alla linea ferroviaria, l'amico del futuro scrittore cade sulle rotaie e viene travolto da un treno. King, in stato confusionale, torna a casa senza ricordare quanto successo.
Ma anche negli anni recenti la qiuete dell'autore viene scombussolata. Nel 1977 la madre di King muore di cancro e lo scrittore sviluppa seri problemi di dipendenza da alcol e droga, arrivando addirittura a pronunciare ubriaco il discorso di addio al funerale della madre. I suoi problemi di tossicodipendenza vengono a lungo sottovalutati perché non incideno in alcun modo nella sua produttività lavorativa, e solo nel 1987 l'intervento di familiari e amici dà inizio al faticoso processo di disintossicazione, che durerà oltre un anno. Il pomeriggio del 19 giugno 1999, dopo aver accompagnato all'aeroporto il figlio più giovane, Owen, intorno alle quattro pomeridiane intraprende la sua abituale camminata di sei chilometri nei dintorni di Center Lovell, nel Maine occidentale, per un tratto lungo la Route 5, la strada asfaltata che collega Bethel e Fryeburg. È proprio lì che Bryan Smith, quarantaduenne con precedenti coinvolgimenti in una dozzina di incidenti stradali, alla guida di un minivan Dodge blu, distratto dal suo rottweiler Bullet, saltato sul sedile posteriore attratto da un frigo portatile che contiene della carne, travolge in pieno lo scrittore che sta camminando sul ciglio della strada. Trasportato in un primo momento al Northern Cumberland Hospital di Bridgton, viene poi trasferito in elicottero al Central Maine Medical Center di Lewiston, a causa della grave entità dei traumi subiti: polmone destro perforato; gamba destra fratturata in almeno nove punti (tra cui ginocchio e anca); colonna vertebrale lesa in otto punti; quattro costole spezzate; lacerazione del cuoio capelluto. Esce dall'ospedale il 9 luglio, dopo tre settimane dal ricovero. Dopo aver accettato in un primo momento le scuse dell'investitore, King decide di denunciarlo per fargli ritirare la patente e di acquistarne il veicolo per 1600 dollari, nella prospettiva di sfasciarlo una volta recuperate le forze fisiche. Le sette operazioni chirurgiche necessarie per essere rimesso in sesto e la lunga e dolorosa convalescenza interrompono la proverbiale disciplina dello scrittore, non più in grado di lavorare ininterrottamente quattro ore ogni mattina per scrivere ogni giorno 2500 parole.
Uno degli avvenimenti che ha segnato il giovane autore è stata la scoperta del genere letterario da lui stesso preferito: L'Horror, scoperto all'età di soli dieci anni. Due anni dopo, rinviene nella soffitta della zia i libri del padre, appassionato di Edgar Allan Poe, H.P. Lovecraft e Richard Matheson, nonché appassionato scrittore. Ed è nel 1960 che King invia il suo primo racconto a una rivista, la Spacemen, che si occupava di film di fantascienza. Il suo scritto non sarà mai pubblicato. Stephen Edwin King sfonda nel mondo letterario nel 1974, otto anni dopo essersi diplomato e aver ricevuto il diploma d'insegnamento, con Carrie, libro che ha permesso all'insegnante di liceo di lasciare il proprio lavoro e a dedicarsi interamente alla scrittura. Oggi King vive insieme alla sua famiglia a Bangor, nel Maine e vanta un numero enorme di pubblicazioni, circa una sessantina. Quando ho incominciato a leggere i libri di Stephen King pensavo che si trattasse di un pazzo con una mente contorta, specialmente dopo aver finito di leggere It; più continuavo a leggere i suoi manoscritti, più me ne convincevo, ma avevo otto anni ed ovviamente ero troppo immaturo. Oggi, avendone ormai quattordici, dopo aver letto e riletto gli stessi libri, ho cambiato diametralmente opinione: ora sono dell'avviso che Stephen King non è pazzo, ma semplicemente un genio.

venerdì 8 luglio 2011

Tu chi sei?

di Stefania Guglielmo

- Tu chi sei ?

- Come chi sono? Sono una foglia!

- Anche io sono una foglia, eppure non sono te, dunque tu chi sei?

- Sono una viaggiatrice per destino, conosco il mondo e mi lascio portare via dal vento.

- Anche io, sai, sono una viaggiatrice, anche io non ho scelto di viaggiare, anche io mi lascio portare via dal vento, ma non sono te, dunque tu chi sei?

- Non so cosa dirti, se non che sono una foglia ma non sono te! E tu chi sei, oltre che una foglia bizzarra e un po' curiosa ?

- Sono la foglia più curiosa, bizzarra e attenta che io abbia mai conosciuto.

- Beh, lo ripeto: sei proprio bizzarra! Come pretendi di essere tu stessa tra le foglie che hai conosciuto? È l’ignoto che si conosce; tu sei forse ignota a te stessa?

- Io no, io so chi sono, sei tu che non ti riconosci.

- Quanto meno so di non essere una foglia folle che pretende di conoscere o non conoscere sé stessa.

- Che cos'è la follia?

- È la perdizione di sé!

- Dunque chi è folle perdendosi è anche ignoto a sé stesso?

- Credo di sì!

- Quindi tu chi sei ?

- L’ho già detto una foglia, una foglia e basta, nulla di più di una qualsiasi altra foglia.

- Se sei una foglia e basta, nulla di più di una qualsiasi altra foglia, come farò a distinguerti da tutte le altre che volano nel vento?

- Forse non potrai.

- Dunque tu ai miei occhi avrai perso te stessa fra le mille altre foglie che volano nel vento o non è così?

- Credo di sì!

- Dunque tu sarai folle ?

- Può darsi, ma lo sarò come mille altre foglie che si lasciano trasportare per il mondo dal vento.

- Dunque neanche la follia saprà aiutarmi a riconoscerti?

- Credo di no.

- Come ti senti ad essere pur non essendo in realtà nessuno, nemmeno una folle?

- Smarrita, credo.

- Eppure dici di volare insieme a molte altre foglie e di conoscere il mondo, non dovresti avere problemi nel trovare la via. A proposito, dov’è che andate tutte voi
«solo foglie» volando nel vento?

- Io... Io non lo so, andiamo … Noi voliamo nel vento. Tu dove vai?

- Viaggio per il mondo per trovare una cosa.

- Cosa cerchi foglia curiosa?

- Cerco nel mondo ciò che è dentro di me.

- Dunque tu sei folle? Hai perso te stessa e addirittura ti cerchi nel mondo?

- No, io conosco me stessa e ora sto conoscendo il mondo, cercando in esso ciò che già è dentro di me. Se non conoscessi me stessa, cosa cercherei di inerente a me nel mondo? Farei meglio a starmene laggiù, insistentemente arginata al suolo, tanto la mia condizione non cambierebbe.

- Dunque secondo te io dovrei fermarmi ?

- Dipende, tu chi sei?

- Te l'ho detto, questo proprio non lo so, sono solo una foglia..

- Ho capito!

- Dunque che cosa devo fare, foglia curiosa? Non so chi sono, ma non voglio continuare così.

- Forse dovresti scegliere
«solo una foglia».

- Scegliere cosa?

- Scegliere se fermarti o viaggiare, per esempio.

- E perché dovrei farlo?

- Perché,vedi, scegliendo, cominceresti ad essere non più solo una foglia, ma un'irripetibile foglia che vola leggera.

lunedì 4 luglio 2011

Un'insolita esistenza

di Stefania Guglielmo

La luna, una sera, parlava alle stelle. Luminose, numerose, vanitose e belle, esse le stavano intorno, quando, incantate dalla sua saggezza, le chiesero perché il sole, come loro una stella, superbamente si ostinava a stare da solo.
La luna, davanti alle luci perplesse delle stelle, sorrise e così cominciò:
«Lo riconosco, il sole è una stella diversa da voi per le sue caratteristiche, ma non è per questo che lo vedete andar via. Il sole è una stella insolita, forse è proprio la sua atipica grandezza che non sa contenere quando è in compagnia, eppure ogni volta che il turno cambia e ci incrociamo sa rendere intenso anche il momento più breve.»
Domandarono allora le stelle: «perché parla a te, o luna, ma non a noi altre? Lo vedi, il sole è superbo e per questo rimarrà sempre da solo!»
La luna riprese a sorridere, quasi le affermazioni delle stelle destassero la sua allegria, e così spiegò: « io ho guardato il sole mirando alla sua semplicità, non mi sono aspettata nulla da lui e l’ho trattato al pari di ogni stella, ma, a differenza di tutte le altre, lui mi ha mostrato la sua vera grandezza, che non consiste nella luce che voi tutte emanate: il sole, infatti, mi ha mostrato i suoi lati più bui, quei lati profondi che una stella non mostra mai, che nessuno scorge e che poche stelle hanno il coraggio di curare.»
«Ti ha mostrato il buio? Vuol proprio fare il bizzarro!» », commentarono tra striduli risolini le stelle.
E la luna: « Sì, comprendo il vostro stupore; d'altronde, il buio oggigiorno non è cosa gradita per una stella e il Sole ha quest’insolita abitudine di custodirlo. Eppur mi chiedo, mie care, cosa ne sarebbe della luce se non ci fosse il buio da illuminare?
Quando emanate la vostra luce, tutti vi notano insieme a me, poiché siamo attorniate dal buio della notte … Ma quando c'è luce non si nota con pienezza il sole, il quale appare così lontano e diverso che nessuno si spingerà mai a conoscerlo realmente. Molte saranno le ipotesi sulla sua struttura e il suo destino, c’è chi lo vedrà meraviglioso e chi invece lo maledirà; chi, come voi, lo vedrà superbo e troppo sicuro di sé solo perché si distingue da una comune stella e non si accorda alla consuetudine del suo moto omologato. Sappiate tuttavia che mentre tutte voi stelle vi occupate di rispettare le convenzioni dettate dalle illusioni della routine, giudicando male chi dissente da voi, lui sarà lì, incurante di ciò, a custodire quei lati bui che sfoggia sereno nell'attesa di qualcuno che si spinga con curiosità a scoprire la sua vera essenza, appagato dalla consapevolezza di godere della virtù più vera: la forza di vivere l’individualità della propria esistenza.
Il sole – e chi come lui – mostra la sua grandezza a coloro che sanno osservare, e ciò non è da superbi. Il sole lascia dietro sé quel buio che consente a voi altre stelle di emanare le vostre luci; è sempre lui, inseguito, a illuminare il tutto, nascondendo le vostre deboli fiamme nel tentativo di svegliare il vostro desiderio di accrescerle e voi, come se foste degli occhi ciechi che guardano senza vedere infiniti colori, non fate che andare alla ricerca dei lati oscuri di un’enorme sfera di luce.»

mercoledì 22 giugno 2011

Filosofia

di Stefania Guglielmo

La filosofia è una scienza che non tende a realizzare praticamente qualcosa.
La filosofia è una scienza compresa da pochi, eppure conosciuta inconsapevolmente da molti.
La filosofia è meraviglia; si potrebbe parlare di filosofia non appena si instaura un rapporto con la propria meraviglia.
La meraviglia è lo stupore, quella propensione alla grandezza ed è propria dell’uomo.
La filosofia è ricerca disinteressata, è ricerca continua di risposte intimamente indispensabili, eppure non praticamente e immediatamente utili.
La filosofia è forse l’unica scienza che non necessita di rigorose nozioni, ma nasce spontaneamente dove si sviluppa la meraviglia.
La filosofia è forse l’unica scienza che si può possedere senza saperlo.
La filosofia non è una dottrina alla quale aderire, non ha limiti né pretese, la filosofia è il rapporto con la propria vita.
La filosofia è attenzione che produce maggiore attenzione al fine di produrre consapevolezze.
La filosofia è applicabile a ogni campo, perché la filosofia è il rapporto dell’uomo con se stesso e in seguito con tutte le cose.
La filosofia è la cura incondizionata di ogni domanda che ci si pone la sera.
La filosofia non è e non ha verità, essa è esclusivamente il richiamo più forte e più dolce della verità.
La filosofia è facile poiché è proprio dell’essenza umana il partecipare dell'esperienza.
La filosofia è difficile perché difficile è per molti affermare a cosa essa serva.
La filosofia è difficile perché oggi ciò che non è palesemente e praticamente utile non serve.
La filosofia è praticamente utile poiché ricerca le cause e i principi come tutte le scienze, ma le sue cause e i suoi principi riguardano quella dimensione urlante dell’uomo che, pur venendo costantemente e brutalmente ignorata, acutizza sistematicamente e instancabilmente il proprio richiamo.
La filosofia è praticamente utile per vivere la vita in profondità, con personalità e nella verità.
La filosofia è praticamente utile per non vivere la vita senza conoscerla e poi trovarsi disarmati quando essa, con audacia, si presenta.
La filosofia è in ognuno di noi.

domenica 12 giugno 2011

Normalità o alterità?



di Stefania Guglielmo

«Ognuno di noi è una contromarca d’uomo, in quanto che è tagliato come sogliole, è di due uno e però cerca sempre la propria metà. […] ma quanti sono una fetta di maschio danno la caccia al maschio e finché sono ancora fanciulli amano gli uomini e godono a giacere e a starsene abbracciati con gli uomini e questi sono tra i fanciulli e i giovinetti migliori, perché i più virili di loro natura. Certo non mancano quelli che li chiamano impudenti ma mentiscono. […] e se ad essi nel momento in cui giacciono insieme si presentasse Efeso con i suoi strumenti alla mano e chiedesse loro : “che volete, o uomini, che avvenga di voi, all’uno per opera dell’altro? Desiderate voi soprattutto essere nello stesso luogo l’uno con l’altro in modo da non separarvi mai né di notte né di giorno?” […] a udir ciò sappiamo bene che nessuno, proprio nessuno, risponderebbe di no, né mostrerebbe d’aver mai desiderato altro, ma crederebbe d’aver udito precisamente ciò che egli desiderava da tanto tempo: di sentirsi unito e fuso con l’amato e divenuto di due un essere solo. E la ragione è appunto questa: che tale era in origine la nostra natura e che eravamo interi. Ebbene al desiderio e alla caccia dell’insieme si da il nome di amore».
Platone, Simposio, Discorso di Aristofane

Sono queste le parole che l’ateniese Platone poneva in bocca ad Aristofane in uno dei suoi più noti dialoghi. La circostanza era la medesima: una riunione tenutasi in casa di Agatone, alla quale prendevano parte alcuni intellettuali del tempo, prefiggendosi di celebrare Eros, il dio greco dell’amore. Si parlava dunque di cosa fosse l’amore, delle sue origini e delle sue conseguenze e, a tal proposito, arrivato il suo turno nella catena simposiale, Aristofane – al fine di illustrare ai convitati la sua concezione dell’amore – proferisce un discorso sulla genesi degli uomini. Era sferica, per il commediografo, la forma originaria degli esseri umani, ma in seguito venne spezzata in due per ira divina, costringendo gli uomini alla ricerca perenne della propria metà perduta. Aristofane tratta poi dell’amore fra uomo e donna nato dalla divisione delle sfere composte dal sesso originato dal sole (il sesso maschile), e da quello originato dalla Luna (il sesso femminile), ma parla anche dell’amore fra donna e donna e di quello fra uomo ed uomo, quest'ultimo generato dalla divisione delle sfere di sesso androgino. Distingue così tre sessi NATURALI dell’uomo ma li fa convergere nell’unico discorso che riguarda Eros, il quale, a pari livello e dignità, li colpisce tutti indistintamente.
Non vi era dunque distinzione all’interno dell’amore nel mondo greco, anzi, un'ipotetica distinzione risultava inconcepibile poiché l’intensità e la veridicità di Eros non poteva dipendere dal sesso dell’amante, quanto piuttosto dal suo desiderio di sentirsi unito con il proprio amato. Inutile precisare che, nonostante il pensiero occidentale moderno affondi le proprie radici nel mondo greco, la concezione dell'amore all'interno della società odierna è notevolmente cambiata.
Oggigiorno, il rapporto uomo-donna viene ritenuto espressione della «normalità» e, allo stesso modo, le altre tipologie di rapporto sono considerate «altre» rispetto al «normale». Oggi è «malato» e quindi «bisognoso di aiuto» chi non è «normale»: ma siamo sicuri che le caratteristiche più diffuse, le uniche degne di nota, siano quelle della supposta «normalità»?
Persino la religione maggioritaria in Italia, quella cattolica, sulla base dell'interpretazione della Bibbia, giudica la coppia eterosessuale come unica depositaria dell’immagine di Dio. Alcuni critici sostengono che in realtà Gesù Cristo non si sia mai espresso a riguardo e che, addirittura, la concezione cattolica contraddice lo stesso messaggio messianico, considerando l’omosessualità alterazione della normalità e limitandone i diritti. Tuttavia, al di là di qualsivoglia professione di fede o ideologia, è opportuno che almeno all'intero degli ambienti istituzionali – le scuole o gli uffici per esempio, venga finalmente adottato un atteggiamento coerente, coscienzioso, comprensivo e tollerante nei confronti della naturale diversità degli orientamenti sessuali relativi ad ogni singola persona.
Si pensi alle classi numerose di oggi, nelle quali viene impartito l'insegnamento della religione cattolica: spesso esse annoverano una vasta gamma di adolescenti che nell’ambito delle loro profonde diversità individuali hanno il sacrosanto diritto di non sentirsi definiti «anormali», «diversi» o protagonisti di situazioni drammatiche. E' una violenza psicologica bella e buona la pretesa di etichettare come portatori di anomalie (o addirittura di «malattie») qualsiasi tipo di individuo e, per chi volesse impostare una discussione di carattere etico, sarebbe certo maggiormente amorale arrogarsi il diritto di giudicare le preferenze sessuali degli altri piuttosto che condurre la propria vita – con coerenza e nel rispetto della legge e del complesso dei cittadini – attuando liberamente le proprie scelte.