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martedì 31 agosto 2010

I giovani, ovvero la speranza di cambiare

di Natale Zappalà

A Domenico, Francesco e Stefania e tutti i giovanissimi che condividono
e condivideranno gli ideali alla base del Progetto Agoghé,
con la profonda convinzione
che il mondo cambierà intorno a loro.

Abbiamo scritto così tanto di macerie, putredine e decadenza, da aver smarrito il ricordo della speranza. Perché, quando non si riesce proprio a scorgere una via d'uscita, agli uomini rimane in bocca il solo sapore della polvere. Esiste un tempo per sognare ed uno per progettare, ma ognuna delle nostre idee deve confrontarsi giocoforza con la naturale ed inevitabile complessità, propria delle cose terrene: le mode, le mille esigenze delle maggioranze, i malcostumi, la noia.
Così si finisce per sopravvalutare la portata stessa della speranza; non si può pretendere di rovesciare il mondo con le parole. I desideri espressi da tutti coloro che vagheggiano un mondo ed una realtà diversa spesso lambiscono ed oltrepassano la sottile linea di demarcazione che separa la possibilità dall'utopia.
I tronisti continueranno a guadagnare più dei laureati e i politici seguiteranno a parlare del domani ingozzandosi di vuota retorica, rigurgitando i bocconi amari del buongoverno e della meritocrazia, impietosamente mandati a quel paese, de facto se non ex cathedra.
L'aspirazione di creare una società migliore è un fine che entusiasma e rigenera nell'immediato. Il suddetto progetto, tuttavia, è destinato inesorabilmente a fallire, semplicemente perché una realtà non cambia volto dall'oggi al domani: si trasforma nel volgere del tempo, questo sì, ma quando essa finalmente muterà, nessuno dei suoi potenziali riformatori ne avvertirà il trapasso, semplicemente perché non ne farà più parte; i grandi cambiamenti, si sa, richiedono un grave tributo di decenni e generazioni.
Quindi sperare è una mera vanità? Nossignori.
L'unico modo per cambiare è quello di esistere e resistere. Parlare, dialogare, scrivere, esportare la diversità del proprio modus vivendi. Selezionare e valorizzare tutti coloro che riescono a vedere la nuda sostanza dei fatti e delle cose, per poi formare un gruppo di pari, augurandosi di accrescerne gradualmente il numero dei componenti.
Le persone che dissentono dinanzi alle miriadi di contraddizioni ed ingiustizie dei nostri giorni ci sono, eccome; molto spesso, possono essere individuati persino fra i giovanissimi. Molti di essi aspettano solo di essere trovati, coinvolti, rincuorati. Talvolta ci si imbatte in dei sedicenni capaci di sconvolgere piacevolmente un uditorio maturo con la propria, coriacea, coerenza; saperli ascoltare equivale un po' a riscoprire quella purissima speranza che abbiamo lasciato contaminare dalla fretta ingiustificata, o dal vano perseguimento di un'utopia.
Vale la pena tentare, specie perché, ad oggi, non esiste un'alternativa migliore. Vale la pena tentare, perché sebbene questo mondo muterà impercettibilmente – e noi non potremo altro che lasciare ai ragazzi una percezione dei nostri sogni, sperando che essa risorga nei loro occhi – quantomeno ci resterà nel cuore la piacevole certezza dell'aver vissuto in un mondo ed in una società che abbiamo provato a cambiare con i fatti.

giovedì 26 agosto 2010

Il principio dell'auctoritas

di Natale Zappalà

Io sono io, e voi non siete un cavolo (nel film di Monicelli, la parola utilizzata era un'altra...)”. Con questa colorita espressione il Marchese del Grillo, magistralmente interpretato da Alberto Sordi, riassumeva il famigerato principio dell'auctoritas, ossia quella consuetudine basata sul non mettere mai in discussione ciò che viene detto o scritto da personaggi che, in un modo o nell'altro, hanno raggiunto dei posti di vertice in seno alla società.
Un principio assolutamente inconciliabile con l'autentico metodo scientifico, le cui fondamenta poggiano sul relativismo gnoseologico: non esistono verità assolute ed universalmente valide e pertanto, gli uomini, procedendo per dimostrazioni e confutazioni perennemente legittimate dall'utilizzo del metodo scientifico, possono approdare a verità perfettibili, ma mai oggettive. Si ritiene valida, per esempio, la teoria eliocentrica – il Sole immobile al centro del suo sistema di pianeti, con questi ultimi attratti dalla sua massa superiore, la Terra che descrive orbite ellittiche ecc. ecc. – solo perché, al momento, non sono stati elaborati dei teoremi in grado di dimostrare formulazioni diverse.
Se le cose andassero normalmente così, non ci sarebbe nulla di rivoluzionario. Eppure, la scienza è fatta dagli uomini, naturalmente ed inevitabilmente imperfetti; uomini che sbagliano, uomini boriosi e potenti, i quali rivendicano spesso pretese di infallibilità, finendo per assomigliare molto ai religiosi che poi pretendono di combattere, procedendo cioè per rivelazioni apodittiche (cioè verità ritenute valide sulla parola, in altri termini per fede). Molti, pur di non ammettere i propri errori di valutazione, ricorrono alla censura del libero pensiero altrui, comportandosi da inquisitori anziché da scienziati.
Esempi e modelli deleteri per i ragazzi, allevati in tal modo ad ignorare, specie nel corso del loro processo di formazione scolastica, gli strumenti critici necessari per mettere in discussione il cieco dogmatismo, l'unico e vero presupposto da realizzare per tutti coloro che aspirano al controllo della società. Del resto, i detentori di qualsiasi forma di potere operano sulla base di una massima fondamentale per l'esercizio dell'autorità: è più facile abbindolare chi crede, non chi conosce.
Quando un uomo dice o scrive qualcosa, a meno che non venga dimostrato scientificamente il concetto di ispirazione divina, può incorrere nell'errore. Non importa se egli sia pontefice massimo, Accademico dei Lincei o ministro della repubblica. Il principio dell'auctoritas è un'idea terrena, relativa, soggetta al volgere del tempo; certo, una persona preparata nel suo mestiere raramente sbaglia, ma il rischio di errare è inevitabile quanto umano.
Riportiamo un esempio utile ad esemplificare le gravi colpe proprie dell'ignoranza umana: sino al XIX secolo, gli storici evitavano di studiare la storia arcaica di Roma, semplicemente perché si riteneva che Tito Livio (autore dell'Ab Urbe condita) avesse già scritto tutto sull'argomento. “Livio che non erra”, diceva Dante, quindi nessuno si azzardava a mettere in discussione l'auctoritas. Poi, qualcuno si accorse che Tito Livio, di cantonate, ne prendeva anch'egli, per negligenza propria o per questioni di strumentalizzazione politica, e si cominciò effettivamente a dubitare circa la veridicità dei sette re di Roma.
Certo, confutare non è un affare facile: occorrono ricerche metodiche, verifiche, dimostrazioni esaurienti. Ma nessun uomo è infallibile, né quando parla ex cathedra, né se scrive libri o fa il docente universitario.
Dubitare coscienziosamente è lecito come respirare. “Cogito, ergo sum”, diceva Cartesio; e, questa volta, non sbagliava affatto.


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Petrarca, Leopardi e la demolizione della “donna-angelo”

di Natale Zappalà

Donzelle sublimate al massimo, amori non corrisposti e mai consumati espressi con linguaggio aulico o cavalleresco, il tutto all'insegna di un concetto di donna inteso come tramite ideale fra l'uomo e Dio. Trovatori, poeti siciliani e stilnovisti: ovvero i grandi teorizzatori – tenendo comunque conto di stilemi diversi a secondo di ogni “scuola” poetica – del canone della “donna-angelo”, un essere benevolo, sapiente e perfetto, dalla bellezza inestinguibile, capace di rassenenare il mondo intero persino quando altrui saluta.
Niente di più artificiale e distante dalla realtà fattuale, costituita da esseri umani naturalmente ed inevitabilmente imperfetti, coi loro pregi e i loro difetti. Al tempo stesso, niente di così lontano dalla convulsa miscellanea di passioni ed angosce provocate dall'amore, patimento indubbiamente terreno, quantomeno nella sua accezione di attrazione mentale e carnale (i due aspetti risultano inscindibili).
La “donna-angelo” tramite fra la terra ed il cielo: una teoria corretta finchè regge l'impalcatura di ipocrisia e sterile moralismo propria di un sentimento utopico con pretese di trascendenza, capace di scansare ed attecchire le pulsioni sessuali, in realtà consueti ed auspicabili complementi del Vero Amore, quello reale e non letterario.
D'accordo, Dante santifica la sua Beatrice quale riferimento allegorico della teologia, la suprema scienza del Medioevo, pur condannando – scrivendo, per altro, nel loro stesso linguaggio – quegli stilinovisti dei quali aveva fatto parte in gioventù, attraverso la collocazione di Paolo e Francesca nel girone infernale dei lussuriosi.
A voler ben vedere, già Guido Cavalcanti si era reso conto dell'assurdità insita nell'artificioso legame fra la donna, l'amore ed il Regno dei Cieli, esplicando i concetti dell'amore e della donna in qualità di impedimenti, piuttosto che incentivi volti al raggiungimento dell'eterna beatitudine.
Del resto, si trattava di uomini del XIV secolo, periodo in cui la morale cristiana ed il senso pervasivo del peccato dominavano la letteratura ufficiale, sebbene la maggioranza di questi autori, toltisi la maschera da buoni cristiani, non esitavano a fornicare alla grande, infischiandosene di valori ed etica cattolica. Come dire, de jure “donna-angelo”, ma de facto sgualdrine, amanti, concubine e figli illegittimi.
Poi, finalmente, arriva Petrarca. Il grande poeta aretino dedica a Laura l'intero Canzoniere; ma la sua Laura – udite, udite – invecchia e muore come tutti i mortali ma, soprattutto, attrae sessualmente il suo cantore: è l'inizio del processo di disgregazione della “donna-angelo”.
In più, l'amore terreno, per Petrarca, diviene un insormontabile ostacolo, insieme al perseguimento della gloria letteraria, nel raggiungimento della perfezione e, perché no, di un posto in Paradiso. Una perdizione alla quale Petrarca non può, o forse non vuole, sottrarsi, facendo così fare la figura del barbagianni ad Agostino d'Ippona, suo pedante interlocutore nel Secretum.
Dalla Laura del Petrarca alla voluttuosa Fiammetta del Boccaccio, il passo è breve. Tuttavia, a beneficio di quelle generazioni di studenti entrati inesorabilmente in paranoia poiché innamoratisi di “donne-angelo” inesistenti e direttamente traslate dai manuali di letteratura italiana, riportiamo la più efficace e sintetica demolizione della suddetta e celestiale categoria, quella di G. Leopardi nel canto Aspasia:


Perch'io te non amai, ma quella Diva
che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.

L'esorcizzazione della “donna-angelo” è ora completa e il Leopardi, pur caduto anch'egli nel tranello della sublimazione dell'amata Fanny Targioni Tozzetti (l'Aspasia terrena), separa, impietosamente, l'immagine ideale ed irreale, della quale si era invaghito e sulla quale aveva fantasticato, dalla persona reale, naturalmente ed inevitabilmente imperfetta, come tutti noi.
In fondo, non bisogna essere geni per comprendere ed accettare l'inalienabile sostanza delle cose; la realtà potrebbe persino apparire gradevole, se affrontata con coerenza.

martedì 24 agosto 2010

La bufala di Lucio Battisti fascista


di Natale Zappalà

Sul web, fra le centinaia di siti, forums e canali-video dedicati al cantautore di Poggio Bustone, ci si imbatte spesso nella trattazione di una bufala clamorosa: Lucio Battisti fascista.
Gli indizi addotti per giustificare questa tesi sanno di ridicolo e, ricordano quelli scovati, a loro tempo, dai sostenitori della presunta morte del Beatle Paul McCartney nel 1966: si spazia da qualche espressione criptica (criptica secondo questi sedicenti teorici del “Battisti-fascista”, ovviamente) contenuta in alcuni, celebri, brani di Battisti – dal “planando sopra boschi di braccia tese” de La Collina dei Ciliegi al “mare nero” de La Canzone del Sole – sino alla mistificatoria intepretazione allegorica dell'album “Il mio canto libero”, laddove la selva di braccia alzate riecheggerebbe il saluto romano.
Tale teoria risulta facilmente confutabile per varie ragioni. In primo luogo, l'autore dei testi delle più note canzoni battistiane è Giulio Rapetti, in arte Mogol, per sua stessa ammissione né fascista né di destra, avendo egli votato, in passato, per il partito comunista, per i liberali o per i socialisti. A prescindere dalle inclinazioni politiche di Mogol, rimane indubbio che Battisti non scrisse questi testi, limitandosi ad arrangiare sontuosamente alcuni fra i più grandi capolavori della musica leggera italiana.
Quanto alla copertina de “Il mio canto libero”, l'autore dell'immagine “incriminata” altro non è che Caesar Monti, pseudonimo di Cesare Montalbetti, fratello di Pietruccio dei Dik Dik e grande amico di Battisti, un uomo dichiaratamente appartenente alle frange estreme della sinistra italiana, che, in realtà, attraverso la raffigurazione della selva di braccia alzate, intendeva essenzialmente rievocare il coro delle tragedie greche.
L'ipotesi di un Battisti fascista rappresenta dunque una evidente invenzione: sul grande cantautore scomparso pesava piuttosto l'etichetta, affibiatagli da certa stampa, di artista “disimpegnato”, in un periodo in cui, fra il '68 e la prima metà degli anni Settanta, lo schieramento ideologico faceva tendenza; non importa se poi le pretese di cambiare la società si traducevano sempre e solo in chiacchiere e dischi venduti e, di fatti concreti, da allora, se ne sono visti pochi.
Mogol e Battisti raccontavano al pubblico italiano di vita vissuta, di amori e di emozioni individuali, senza il filtro della politica, sulla base di una scelta libera e non condizionata da fattori dettati dal coevo contesto storico o ideologico. Inoltre, la coriacea coerenza dell'uomo-Battisti, uno che limitava al massimo le apparizioni televisive, le notizie inerenti la sua vita privata e i consueti mezzi di promozione discografica, dava molto fastidio ad alcuni ambienti della carta stampata. In altri termini, Lucio voleva parlare esclusivamente con la musica, diversamente da suoi illustri colleghi (Mina, per esempio), i quali alternano periodi più o meno lunghi di ritiro dalle scene a multimilionari ingaggi per concerti o comparsate televisive. Così un disilluso apolitico finiva per essere tacciato di fascismo.
Ciò che di vero si coglie in questa faccenda, in definitiva, è l'esempio di arte pura e disinteressata, esemplificata dalla vicenda biografica e professionale di Lucio Battisti, un artista capace di colpire nel più profondo dell'anima generazioni di persone che, ancora oggi, sospirano nell'ascoltare le sue melodie immortali. Un esempio di coerenza oggi inesistente sullo scenario musicale contemporaneo, da divulgare massicciamente, a beneficio dei più giovani che potranno cambiare il mondo.

venerdì 20 agosto 2010

Trani: che i cittadini ignorino l'appello di Mons. Babini

di Natale Zappalà

«I cattolici farebbero bene ad occupare la piazza della cattedrale di Trani per protesta contro Elton John. Incredibile che canti davanti ad una chiesa. Non se ne può più degli omosessuali».
«Meglio non nascere che vivere certe esistenze». (Monsignor Giacomo Babini da www.pontifex.roma.it)

Il presupposto da cui partire al fine di inquadrare coscienziosamente la vicenda legata alla infelice esortazione di Giacomo Babini, vescovo emerito di Grosseto, in merito al concerto di Elton John in Piazza del Duomo di Trani, è il seguente: il popolo italiano non dovrebbe dare peso ad affermazioni del genere, in quanto chi ha detto o scritto frasi ignominiose come queste, non risulta affatto ispirato da alcuna entità soprannaturale; si tratta di un essere umano, imperfetto ed incline all'errore al pari di tutti gli uomini, sebbene rivestito dai paramenti vescovili (un potere che non avrebbe avuto in natura, se qualcuno più grande di lui non gliel'avesse concesso, secondo la celebre replica evangelica di Gesù di Nazareth a Ponzio Pilato).
In secondo luogo, un vescovo non ha la facoltà di impedire l'allestimento di qualsivoglia evento sul suolo pubblico, gestito da un comune. Semmai, l'invito ai cattolici di Trani ad occupare la Piazza del Duomo per protesta – protestare nientemeno per l'esibizione di un cantautore omosessuale, quelle affaire! – oltre ad essere un'aperta ingerenza, rappresenta un'istigazione al sovversivismo, in quanto lo stato italiano, laico ed aconfessionale, tollera il credo religioso del singolo cittadino, finché esso non induca al turbamento dell'ordine pubblico; una eventuale manifestazione non autorizzata dalle autorità competenti significherebbe violare la legge statale e sovrana.
Se proprio si vuole esaminare la questione sul piano etico, nessuna dottrina morale può permettersi il lusso di ritenersi esclusivista o depositaria di una supposta verità universale, valida per tutti gli esseri viventi; sostenere l'immoralità dell'omosessualità rappresenta un'espressione di relativismo, per altro facilmente confutabile, sia a livello etico che scientifico.
Inoltre, l'intolleranza non dovrebbe neppure rispondere ai criteri caritativi propri dell'insegnamento di Gesù di Nazareth, il quale sedeva con pubblicani e prostitute, perdonava le adultere e predicava ai pagani, talvolta visitandone persino le abitazioni.
In definitiva, la pretesa del Babini risulta inadeguata ed inaccettabile sulla base di principi giuridici, etici e cristiani (intesi quantomeno nel senso di “seguaci del Cristo” e non dell'apparato gerarchico che spesso rinnega le sue origini con il cattivo esempio dei comportamenti, del resto la Chiesa è fatta di uomini imperfetti, cosa aspettarsi di più?) e, non merita alcuna credibilità, così come tutti gli oltraggi alla libertà ed alla tolleranza non legittimati dal ricorso alla Giustizia, al rispetto delle diversità ed al criticismo.
Infine, un appello ai cittadini di Trani: Elton John, artista capace di scrivere dei veri e propri inni all'Amore come “Your Song” – inni all'Amore in sé e non all'amore gay, visto che l'Amore è tale senza distinzioni dettate dal sesso – non è un cantautore omosessuale, ma un cantautore e basta. Un grande cantautore per giunta e, se andrete a vederlo, a Piazza del Duomo o al Monastero Colonna (chissà cosa deciderà l'amministrazione comunale di Trani in proposito?), passerete certamente una piacevole serata all'insegna della musica; che non ha preferenze sessuali, per fortuna!

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Il leitmotiv dei Reggini ignoranti

di Natale Zappalà

Quando, tra la fine del '500 e l'inizio del secolo successivo, monsignor Annibale D'Afflitto svolgeva le sue celebri visite pastorali presso le parrocchie italo-greche del Reggino, il pomposo arcivescovo non mancava di segnalare l'apparente ignoranza dei preti ellenofoni.
Similmente, dopo l'Unità d'Italia, i funzionari piemontesi inviati nel Mezzogiorno annotavano immancabilmente il loro disprezzo nei confronti delle genti del Sud, usualmente tacciati di malcostume ed arretratezza culturale.
Ancora ai nostri giorni capita che qualche criticastro, venuto da Settentrione sulle rive dello Stretto mendicando ingaggi e serate pagate dagli enti pubblici per poi atteggiarsi superbamente come se fosse stato supplicato, non disdegni di tracciare un quadro desolato delle condizioni societarie nostrane: un popolo di incolti, dicono i suddetti ciarlatani, lieti di ingozzarsi di pesce e torroncini subito dopo aver dominato il pulpito.
Un irritante luogo comune, quello dei presunti e cronici malesseri culturali del Reggino, il quale si spiega sulla base di una constatazione ovvia: sono i detentori dell'egemonia a potersi permettere di stabilire chi o cosa sia ignorante oppure no. Un vivido esempio attuale è costituito dalla scelta di privilegiare la civiltà comunale di Italia Settentrionale fra l'XI e il XII sec. come espressione retrospettiva della Lega Nord, nonché prefigurazione del potere dei grandi industriali padani; probabilmente dal Giuramento di Pontida partiranno i futuri manuali scolastico-nazionali di storia, con buona pace del periodo greco-romano.
Il possesso del potere determina la scelta della cultura predominante: così, l'arcivescovo D'Afflitto, prelato papista di lingua e rito latino, non poteva che accusare i preti reggini di essere dei somari, abituati com'erano al fluente utilizzo del greco. Non importava molto che questi chierici “ignoranti” contemplassero in biblioteca Erodoto, Tucidide, Aristotele e tutto il repertorio di classici nella lingua di Omero, vero fondamento della nostra civiltà. Il papa romano, in questo caso, tracciava la linea di demarcazione fra il rito latino, superiore in quanto egemone politicamente, e quello greco, perdente in quanto espressione di identità e tradizioni ancestrali della regginità.
I funzionari sabaudi che prendevano servizio nel Meridione dopo il 1861 si trovavano a dialogare con una società mai stata legata, sia culturalmente che economicamente, al circuito padano-settentrionale; senza contare che l'italiano era ancora una lingua esclusivamente letteraria e, i suddetti funzionari sabaudi solevano esprimersi in dialetto piemontese, quando proprio non riuscivano ad essere alla moda, masticando un po' di francese.
Quanto ai criticastri che approdano presso i nostri lidi, scroccando prontamente la munificienza e l'ospitalità delle amministrazioni comunali per poi declamare con naso teso e non troppo celato sdegno verso la presunta marginalità del nostro immenso patrimonio culturale, il discorso da fare è un altro: tali, illustri, cattedratici senza cattedra, affetti dai pregiudizi di Lombroso e compagnia bella, ignorano, formati come sono alla luce della faziosa e parascientifica manualistica scolastica italiana, il glorioso e trimilennario passato dei Reggini, convincendosi infine di poter venire a profetizzare corbellerie in una terra arida ed illetterata.
La verità è che la cultura nostrana giace prigioniera delle strumentalizzazioni politiche e dei luoghi comuni, funzionali a persuadere la popolazione reggina circa l'inevitabilità della propria arretratezza. Fandonie utili a trattare la città di Ibico ed Anassila come bottino di guerra, deprendandone i tesori, Bronzi di Riace in testa.
Ecco perchè servirebbero nuove e coscienziose strategie di divulgazione in grado di coinvolgere e coordinare i più giovani, nella speranza che un domani siano proprio loro a difendere con le armi della dialettica, della libertà e dello spirito critico, l'inviolabile identità ereditata dai Padri.
Si eviterà così che, una volta ancora, qualche ciarlatano sfornato dal circuito culturale egemone longobardo, sentendo parlare di Stesicoro – poeta greco del VI secolo a.C., nativo dell'attuale Gioia Tauro – risponda “Salute!”, scambiando il nome dell'illustre letterato per uno starnuto.

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martedì 17 agosto 2010

Bagnara: i giovani e l'estate. Che fare?

di Stefania Guglielmo

Estate 2010 a Bagnara Calabra, culla di uno splendido mare, colpita da un sole meraviglioso che non ci lascia mai! Un' oasi di benessere insomma, illuminata da raggi dorati. Ma cosa succede quando il cielo stellato e il nostro fantastico stretto rimangono unici fari sopra di noi? Cosa succede quando viviamo le ore ''uniche'' della nostra vita giovanile? E' piacevole dedicarle ad uscire  e stare in compagnia ma, purtroppo, la pressante necessità di crearci, sempre e da soli, del divertimento  ci rende oggetto di una frivola monotonia. Meno appagante risulta, infatti, trovarsi a diciassette anni a chiedersi, scoraggiati, cosa fare! Per i primi tempi la fantasia  è un dolce sostegno  ma a lungo andare sono solo lamentele le parole di una gioventù ”gufo”, dormiente di giorno perché intenta  a recuperare il sonno delle ore notturne in veglia trascorse. Una veglia che, peraltro, di tutto sa tranne di quel puro divertimento così indispensabile alla nostra età.  E’  molto diffusa, infatti, l’abitudine di confondersi  con qualsiasi mezzo utile, che sia l’assordante musica nei “lidi da ballo “ od  espedienti più fugaci e dannosi, risultando necessario evadere da una  realtà giudicata troppo invariata! Ma perché ci piace così poco questa realtà? Sarà per  le scarse opportunità offerteci unite a quelle  altrettanto scarse che ci creiamo (o non ci creiamo) in questi tre mesi di bella libertà? Chi di noi non comprende quanto possa, poi, risultare inaccettabile ad un occhio adulto che i primi a perdere le speranze, motore del cambiamento, siano  proprio i più giovani fra i  teen-ager, che si rendono i maggiori autori dei più frequenti eccessi serali? A pensarci un attimo siamo  in un età in cui esplode in noi il bisogno di una continua attenzione a tutto; è ora il tempo in cui possediamo quell’ innata indole allo stupore, in fondo ci affacciamo al mondo per la prima volta e benché le opportunità per sfruttare questa nostra condizione siano veramente poche , credo sia  un gran peccato ambire con tutte le nostre forze a chiudere gli occhi della nostra naturale  curiosità! Evitiamo di farlo  liberando questa nostra propensione alla meraviglia, è nostra e nessuno potrà privarcene …. Gioviamone , non lasciamola lentamente spegnere accontentandoci o lamentandoci di ciò che non abbiamo per poco coraggio o poca iniziativa … manteniamoci svegli perché il nostro sguardo,  se non è confuso ma è libero, è molto più sincero ed efficace di uno sguardo adulto che ha ormai perso la sua di curiosità!  Un’ estate che regala attimi di eterna assenza lascerà solo attimi … un’ estate vissuta  coscientemente, alimentando la nostra meraviglia ci lascerà una libertà  capace di trasformare in un' eterna avventura la stessa realtà che oggi ci appare così ovvia e tediosa.


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Questa è l'Italia scelta dalla maggioranza!

di Natale Zappalà

Questa foto – allegata all'articolo, a disposizione dei lettori – da alcuni mesi viene diffusa massicciamente su Internet. Non c'è molto spazio per le interpretazioni: si tratta di paragonare lo stipendio mensile di una giovane laureata col massimo dei voti, ottocento euro, ai circa diecimila che percepisce Renzo Bossi, tre volte bocciato agli esami di maturità, Consigliere della Regione Lombardia.
Un dettaglio informativo utile, per carità, sebbene risulti intriso da quelle infruttuose forme di giustizialismo convulso che spesso accompagnano gli slogans e gli scambi di opinioni presenti sul circuito virtuale dei social-networks. Altra cosa è invece sviluppare una riflessione ponderata in merito alla questione, cercare di analizzare le motivazioni profonde di questo ed altri paradossi evidenti, figli della società odierna.
Renzo Bossi, in primis, è un consigliere regionale regolarmente eletto, con ben 12.683 voti: ciò significa che un congruo numero di elettori ha scelto coscienziosamente di votare quel candidato. In sostanza, se un giovane, sicuramente poco acculturato e non così particolarmente incline all'eloquenza, è stato eletto consigliere regionale, è chiaro che QUALCUNO LO HA VOTATO. Eppure, i cittadini lombardi potevano scegliere di votare un altro candidato, magari in possesso di una laurea, o semplicemente più simpatico.
Renzo Bossi, in fondo, è la proiezione fedele di una rappresentanza maggioritaria della società italiana, la quale, attraverso l'esercizio sistematico ed incondizionato della democrazia e del libero arbitrio, esprime i suoi rappresentanti politici, decide quali prodotti acquistare e quali mode seguire, a chi credere o cosa guardare in TV, ma soprattutto a quali modelli ispirarsi e quale identità assumere.
Qualcuno – e, ribadisco, sono molti – ha votato Renzo Bossi. Ma qualcuno, basta leggere i dati Auditel, guarda la Pupa e il Secchione, anche se poi tappezza la Rete di gruppi Facebook ostili alla televisione-spazzatura; qualcuno depreca la moralità dei personaggi pubblici, ma poi non disdegna di raccomandare il figlio agli esami di maturità, tempestando di telefonate il docente esterno della commissione; favori, segnalazioni e “comparati” vari, regolano i meccanismi elettorali, le assunzioni, le graduatorie e, persino le code ai bagni pubblici. Ed osiamo ancora lamentarci di Renzo Bossi?
Occorre rispettare, singolarmente e quotidianamente, la legge e i valori di giustizia ad essa correlati, se si pretende che tutti gli altri la rispettino a loro volta. Limitarsi a fare circolare queste foto o questi slogans non è produttivo se, parallelamente, non si comincia ad educare le nuove generazioni a scegliere ed agire in base a criteri effettivi – e non ipocriti – di meritocrazia e sincero interesse e tutela nei confronti della collettività. Non è possibile coniugare l'ambizione di ergersi a pedagoghi se poi si chiedono raccomandazioni per piazzare se stessi, i parenti e gli amici.
Rispettiamo, se vogliamo essere rispettati. Un po' come la prigione circolare di Bentham: un edificio circolare, le cui celle – sempre aperte, senza sbarre o porte blindate – sono disposte intorno ad una colonna centrale, dove siede la guardia, posta dietro uno specchio. In tal modo, la sentinella vede i prigionieri senza essere vista da essi: in qualsiasi momento, la guardia può decidere di controllare una determinata cella, senza che il detenuto se ne accorga. Ne consegue che i prigionieri devono ritenersi sorvegliati in continuazione, anche se la sentinella non li osserva; la presenza della guardia, a questo punto, è assolutamente inutile, sono i detenuti a gestirsi da soli. Chiaramente, la sentinella è una metafora della legge e dei valori civici e morali che ne costituiscono le fondamenta, mentre i detenuti rappresentano, in realtà, l'intera cittadinanza.
La società odierna, di converso, ha fatto la fine degli animali che elessero il loro presidente nel noto racconto di Trilussa: quando gli elettori si accorsero di avere votato un asino che li aveva gabbati mettendosi sulle spalle la carcassa di un leone e, per questo, presero a protestare, contestare e manifestare, il presidente-somaro sentenziò: "Silenzio! Siete voi che mi avete eletto! Ed ora rispettate il Presidente!"

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Fra Legge e religione: il caso dei preti pedofili

di Natale Zappalà

Negli ultimi tempi, l'opinione pubblica è stata sconvolta dal riaffiorare di numerosi casi di abusi sessuali sui minori, da parte di chierici cattolici, talvolta persino degli alti prelati.
Non è intenzione di chi scrive strumentalizzare episodi, così intrisi di violenze disumane e sofferenze incancellabili, per manifestare le proprie avversità nei riguardi della Chiesa Cattolica come pure qualcuno, dai pulpiti televisivi o dalla carta stampata, di recente, ha fatto: mi preme soprattutto l'esigenza di esaminare oggettivamente il problema, sebbene, in determinate casistiche, l'atteggiamento di eminenti personalità legate al mondo cattolico - le quali, di fronte a comprovati tentativi di insabbiamento dei reati di pedofilia commessi da sacerdoti, denunciavano l'esistenza di una sorta di complotto ordito da certa parte del sistema politico e mediatico - ha finito per indisporre e sconvolgere ancor di più le coscienze della gente comune (come ha ragionevolmente sostenuto il teologo Vito Mancuso dalle colonne di Repubblica), alimentando ulteriormente le polemiche ed i tentativi di strumentalizzazione in chiave religiosa o laica del fenomeno.
Lo stato moderno, come quello italiano, sovrano ed aconfessionale, è costituito dall'insieme di tutti i cittadini aventi diritto, uguali di fronte alla Legge; quando uno di essi viene denunciato per aver commesso un reato, questi sarà incriminato, giudicato e, se colpevole, condannato sulla base dell'ordinamento giuridico vigente. Un sacerdote, in quanto cittadino, non è immune da queste, imprescindibili, condizioni. Un prete pedofilo è dunque, prima di tutto, un cittadino trasgressore e, come tale, soggetto all'applicazione delle consuete procedure penali.
Prospettive e constatazioni ovvie, banali? Assolutamente no, dal momento che in molti, delicatissimi, episodi, si tende a confondere il reato e la pena ad esso (eventualmente) comminata col concetto di “peccato” e “perdono” nell'accezione cristiana. Ma un reato – sebbene, a livello soggettivo, in base alla confessione religiosa cui appartiene un singolo, possa essere contemporaneamente considerato peccato – va dapprima comprovato e giudicato dalle autorità preposte e, solo dopo, può essere perdonato, a discrezione della vittima.
Altre volte, i chierici, anacronisticamente, pretendono di dirimere le controversie ed occultare gli scandali semplicemente comportandosi come se non fosse mai stato abolito il foro ecclesiastico – l'antico diritto, a beneficio dei cattolici, di essere giudicati secondo tribunali e legislazioni religiose speculari ed alternative a quelle secolari – quasi facessero parte di un corpo estraneo ed indipendente all'interno degli stati.
Cari lettori, viviamo all'interno di una comunità di cittadini la cui esistenza viene tutelata dall'esercizio sistematico delle leggi. La religione può condizionare i nostri comportamenti solo a livello individuale e privato, fermo restando che il rispetto assoluto delle norme che regolano la vita civile precede l'appartenenza confessionale del singolo.
Questi sono dati de jure et de facto, insindacabili e al riparo da qualsiasi distorsione, di qualsivoglia natura. Quando il pontefice romano ha invitato pubblicamente il mondo cattolico a denunciare i preti pedofili, egli non ha affermato niente di così rivoluzionario: ha soltanto invitato dei cittadini a rispettare le leggi vigenti.
In conclusione, non c'è spazio, a mio parere, per interpretazioni particolari del fenomeno. L'unica cosa che si rischia di perdere di vista, in queste discussioni, è il dramma vissuto dalle vittime degli abusi. Di ciò le associazioni religiose, di qualsiasi fede, fazione o filosofia, dovrebbero preoccuparsi maggiormente poiché, come recita il Salmo 32 della Bibbia, “diritto e giustizia sono alla base del trono di Dio”; e questo la dice lunga su tutto.

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Il Quoziente Intellettivo: verità o bufala

di Natale Zappalà

Esiste un livello di intelligenza generale, una capacità cognitiva globale relativa al complesso delle attività umane che sia misurabile o paragonabile? Nossignore; o, quantomeno, non c'è niente di scientificamente dimostrato in merito.
Eppure, si sa, i luoghi comuni determinano spesso la diffusione di mode o scimmiottamenti stupidi e, oggigiorno, si vendono molto quei prodotti elettronici che pretendono di quantificare l'età celebrale. Su Internet spopolano quiz simili a quelli che, negli Usa (il famigerato SATScholastic Assessment Test, per esempio), vengono effettuati all'inizio del percorso di formazione scolastica, allo scopo di selezionare gli studenti e, possibilmente, pianificare la vita futura degli individui. Come se, un bimbo che ottiene risultati eccellenti nella prima età scolare semplicemente rispondendo a qualche domanda stupida, sia preferibilmente destinato a diventare senatore, presidente o magistrato, con la possibilità di frequentare gli istituti più prestigiosi; se non si tratta di razzismo consapevole, è pur sempre una forma becera di determinismo fantascientifico.
Il concetto di quoziente intellettivo (Q.I.) ebbe origine nel 1904, quando il Ministero della Pubblica Istruzione francese incaricò Alfred Binet di elaborare delle tecniche finalizzate ad individuare gli studenti con difficoltà di apprendimento. Binet elaborò una serie di test di complessità progressiva, indicativi di capacità basilari di ragionamento: se un bambino di sette anni riusciva a risolvere dei quiz che, mediamente, potevano essere superati da scolari della stessa età, all'esaminando in questione veniva assegnata un'età mentale di sette anni, indipendente da quella cronologica. Ricerche successive definirono il quoziente intellettivo sulla base della celebre formula Q.I.= (età mentale/età cronologica) * 100. Difatti, nello stesso 1904, lo psicologo inglese Charles Spearman notò che gli individui che ottenevano punteggi alti in determinate prove, talvolta tendevano a conseguire risultati pregevoli anche in prove diverse: un sillogismo evidente, che tuttavia indusse Spearman a teorizzare l'esistenza di un fantomatico fattore “g, l'intelligenza generale.
La morale della favola è che – l'idiozia dell'uomo è risaputamente contagiosa – ben presto, questi quiz vennero strumentalizzati per dimostrare delle presunte differenze intellettive fra gli individui e, soprattutto, fra gruppi di individui, sulla base dell'etnia, della provenienza geografica o dell'estrazione sociale.
Nel 1924, negli Usa, venne promulgata una legge sull'immigrazione basata sulle presunte differenze intellettive fra gli angloamericani e gli emigrati europei-orientali o mediterranei; in base ai risultati dei test, questi ultimi risultavano “meno intelligenti” rispetto agli anglosassoni, tanto da giustificare l'attuazione di una legislazione restrittiva in termini di concessione della cittadinanza. Test analoghi, nei decenni successivi, tenderanno a certificare la supposta inferiorità intellettiva degli afroamericani.
Se i suddetti gruppi di individui ottenevano sistematicamente risultati peggiori rispetto ad altre componenti nel corso dei quiz, ciò era facilmente spiegabile in base al concetto di “minaccia dello stereotipo”. In altri termini, quando un individuo, sottoposto a test del genere, risultava psicologicamente condizionato dalla pessima fama legata alla sua presunta inferiorità – si ricordi che, per esempio, negli Stati Uniti degli anni Venti, dare del “mediterraneo” ad una persona era sinonimo di vigliacco obifolco – otteneva immancabilmente punteggi bassi.
In realtà, l'esistenza dell'uomo ed il funzionamento del suo cervello sono soggette ad un'infinità di variabili, condizionamenti e fattori vari. Per tali ragioni, oggigiorno, studi psicologici o sociologici più seri (Gardner, per esempio) parlano di forme distinte di intelligenza piuttosto che di quoziente intellettivo o età celebrale. In ogni caso, si utilizzano sagge cautele e ponderate sperimentazioni in omaggio alla complessità che regola il mondo, evitando di divulgare dogmi apodittici parascientifici volti a legittimare delle false verità.
L'unica cosa certa, in fondo – con buona pace di tutti quei ciarlatani e pseudo-scienziati di bassa lega, il cui vivido esempio è Cesare Lombroso – è che conosciamo una minima parte del nostro cervello, sebbene ciò basti spesso a sostenere delle fallacee ineguaglianze fra gli esseri umani. Nonostante tutto, milioni di persone continuano a seguire, acriticamente quando non stupidamente, dei simili oltraggi – quelli sì – alla dignità della Natura e della VERA Scienza.

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lunedì 16 agosto 2010

Calabria, terra abbandonata?

di Natale Zappalà

La maggioranza degli eventi culturali che vengono promossi nel Meridione presentano una peculiarità inquietante: il relatore di turno, direttamente giunto da Settentrione per legittimare la sua virtù di emigrato illustre, che spera di riscuotere la sua fetta di applausi descrivendo demagogicamente gli scenari di una terra – la nostra terra – abbandonata e schiva, arida e desolata, pericolosamente reclinata al servilismo. In altri termini, l'ovvia facilità di chi enumera i segni evidenti di una malattia senza illustrarne modalità di prevenzione, sintomi e cure.
Si tratta, a voler ben riflettere, di abusati luoghi comuni capaci di adattare alle esigenze contingenti di qualche ciarlatano in cerca di successo materiale, le pur secolari problematiche che affliggono i nostri luoghi. Come se fosse costruttivo venire a riempirsi la bocca di sterili piagnistei, assolutamente inadeguati se relegati a sé stessi, al fine di pianificare coscienziosamente ed oggettivamente la tanto sospirata rivoluzione culturale a beneficio dei nostri figli e del loro avvenire.
Quante volte ci è capitato di ascoltare discorsi pronunziati con finto accento settentrionale, volti a convincere la platea circa le sventure di una società esclusivamente ignorante, schiava e meretrice. Discorsi triti e ritriti, miscelati con qualche aforisma greco o latino, tanto per millantare al pubblico la propria delirante forbitezza oratoria, e poi confonderlo come il Don Abbondio che biascica latinorum per sviare il malcapitato Renzo dalle reali motivazioni animanti il rinvio del suo matrimonio con Lucia.
Ebbene, che questi dotti cattedratici comincino a riferire alla gente la sostanza dei fatti, iniziando a chiarire che, in questa terra abbandonata alle raccomandazioni ed ai clientelismi, sono essi i primi raccomandati e i primi favoriti, dal momento che la maggioranza di questi professoroni non si muove mai con finanze proprie, ma con continue telefonate contornate da osceni lecchinaggi ai politici ed ai potenti locali, mendicando serate ed ingaggi. Benvengano le denunce e le recriminazioni, ma per sostenere e ritenersi vindici di una determinata causa è necessario mantenere una condizione di assoluta purezza intellettuale che dia fondamento alle proprie aspirazioni di giustizialismo; il resto, è vana ipocrisia.
Le possibilità di forgiare mentalità capaci di inaugurare una nuova stagione di valorizzazione culturale del Sud non possono prescindere dall'umiltà e dalla coerenza. Piantiamola con i disfattismi di circostanza e parliamo piuttosto di educazione, rispetto e realismo; diamo ai giovani l'esempio e la speranza del domani, aiutandoli a combattere giorno per giorno anziché scappare e lasciare la tavola imbandita a qualche furbone.
I problemi ci sono, urgenti ed evidenti. Ma prevenirli o curarli significa essere disposti a prodigarsi quotidianamente, divulgando il riguardo delle leggi, della meritocrazia e dei comportamenti ossequiosi della dignità degli esseri umani. Tutto ciò evitando, se possibile, di affermare davanti a centinaia di persone che i meridionali sono culturalmente snobbati per via della mafia, della povertà, dell'ignoranza e di un presunto atteggiamento rinunciatario di fronte al progresso: questo, oltre ad essere epressione di certo determinismo geografico-culturale ormai passato di moda, equivale a coltivare l'arte del pregiudizio a casa dei pregiudicati.
Una delle nostre principali colpe ricade nell'incapacità di reagire al proferimento di cotante balordaggini, la nostra incuranza dinanzi a questi idioti che arrivano qui, vomitando qualche accusa senza neppure proccuparsi di dimostrarla scientificamente, e poi se ne vanno a mangiare nel migliore ristorante del borgo, ovviamente a spese delle amministrazioni comunali e quindi dei contribuenti. Un po' come quei cantautori impegnati e no-global che parlano a iosa della fame nel mondo per poi strafogarsi sette portate con dolce ogni giorno, grazie ai proventi delle vendite dei dischi.
Siamo stufi di tali corbellerie. Qui serve sudore per edificare, non lacrime di coccodrillo. Abbiamo bisogno di sostanza, intellettuali o presunti tali che siano disposti a scendere dai gradini dell'onnipotenza sui quali si collocano, in modo da fornire al popolo gli strumenti critici per sperare. Magari, iniziando ad ammettere che la cultura nobilita l'uomo ma non lo divinizza e, soprattutto, non elimina la sua naturale inclinazione ad errare, spesso grossolanamente.
Servono ciangende – figure folkloristiche del reggino che esprimevano, con pianti, urla e straziamento di carni e capelli, il cordoglio in occasione di una dipartita – quando c'è il morto, ma qui non c'è ancora niente che si sia estinto, se non l'incidenza e l'utilità sociale di certe parole e di certi atteggiamenti deliranti, capaci solo di incrementare lo sconforto del pubblico e il gettone di presenza di qualche ciarlatano.

Nota critica al recital “La città fantastica”

di Salvatore Bellantone

La sera del 13 agosto 2010, presso l’anfiteatro comunale di Bagnara Calabra, si è svolto il recital “La città fantastica – il lungo canto di Lorenzo Calogero”, promosso dal gruppo sperimentale Villanuccia e dal Teatro Belli di Roma, in onore dell’omonimo poeta calabrese. Numerosi i concittadini partecipanti. Lo scopo del recital è stato quello di richiamare l’attenzione degli eredi più vicini al poeta e dei calabresi, sennonché dei concittadini, nei riguardi di un grande poeta della storia del Novecento e della storia della Letteratura Italiana ed Europea, e favorire così, al più presto, una nuova pubblicazione delle opere di Calogero.
Rifiutato infatti dai più grandi editori del mondo editoriale italiano del tempo, Calogero ha pubblicato le sue poesie a proprie spese presso case editrici di minore importanza (Lerici, Vallecchi, Centauro per dirne alcune) ma non è mai stato preso in considerazione nel panorama letterario del periodo, forse per invidia e per delirio di onnipotenza degli altri letterati a lui contemporanei. In questa eterna solitudine letteraria, Calogero è vissuto “povero e pazzo”, come si suol dire, ed è stato abbandonato a se stesso, fino alla morte. Dopo la sua dipartita, nel panorama intellettuale nazionale ed europeo si è aperto il cosiddetto “caso Calogero”, vale a dire una brevissima parentesi interrogativa sulla figura e sulla poetica di Calogero, nella quale gli scrittori, i critici e i poeti più in voga del periodo hanno giudicato l’opera calogeriana dall’alto del seggio autoritario che ognuno si è guadagnato con favoritismi politici, economici e propagandistici. Rifiutato il poeta in vita, la piramide del mondo intellettuale ne ha trascurato anche la poetica, bocciandola per questioni di prestigio personale, gloria e quattrini. Da allora, sono passati quasi cinquant’anni e il poeta di Melicuccà, bagnarese per parte della madre, è caduto nell’oblio assieme alle sue poesie.
All’associazione Villanuccia e al Teatro Belli va riconosciuto il merito di aver strappato alla dimenticanza Calogero e la sua poetica, mediante varie iniziative promosse negli ultimi anni, tra le quali ad esempio la realizzazione di un sito internet (www.lorenzocalogero.it) e del recital “La città fantastica” svoltosi a Bagnara, utili per riaprire l’antico caso Calogero, per riconoscere la sua opera sul panorama letterario europeo e mondiale, per riaccendere l’amore nei confronti del poeta calabrese e della sua poetica. Grazie a queste iniziative, infatti, ho conosciuto Calogero e la sua poesia: ai promotori di queste trovate sono debitore, perché da quando ho letto le poesie di Calogero non ho potuto fare a meno di avvertire l’importanza poetica, linguistica, artistica, emotiva, filosofica, in una parola “umana” che rappresenta l’opera calogeriana. Non ho voce in capitolo per quanto riguarda i diritti d’autore ma da quando leggo Calogero – ripeto per merito di chi ho citato sopra – ritengo di aver ereditato la sua storia e la sua poetica e, dunque, mi sento chiamato in causa in modo tale che è spiegabile esclusivamente con le palpitazioni che mi straziano quando leggo la sua stessa storia, le sue stesse poesie. Per questo motivo, vi ringrazio, perché conoscere la vita di un mio conterraneo Calogero, leggerne la poetica e sperimentare entrambi nei limiti della mia carne, per me significa vivere vera-mente. Se questo è lo scopo della vostra battaglia, mi rivolgo ai componenti del gruppo Villanuccia e del Teatro Belli, vale a dire far risorgere nei conterranei l’amore per il poeta di Melicuccà, allora vi dico che, nel mio caso, le vostre intenzioni hanno raggiunto un porto sicuro. In questa prospettiva, assistendo allo spettacolo da voi organizzato in onore del poeta calabrese – che ormai considero un mio fratello nel sangue dei versi – non posso fare a meno di evidenziare alcuni aspetti e momenti artistici dello spettacolo “La città fantastica”, tenutosi a Bagnara il 13 agosto, che, a mio parere, lo hanno esibito in modo a-Calogeriano, ossia contro Calogero uomo e poeta.
Le dichiarazioni introduttive svolte da Nino Cannatà hanno mostrato di che pasta siete fatti o, in particolar modo, di che pasta è fatto proprio lui. Sostenere che il senso della battaglia calogeriana svolta in questi anni con eredi e non, aveva la scadenza del 2011, dimostra che l’amore da voi – o da Cannatà – ostentato per Calogero è piuttosto avidità di denaro e gloria. Chi ama una persona qualsiasi non può porre dei limiti al proprio amore, ossia alla propria inclinazione/attrazione sfrenata nei confronti di altri. Se davvero siete – oppure è – innamorati di Calogero, malgrado possano apparire o perpetrarsi delle difficoltà per realizzare il sogno della riscoperta di Calogero, non avreste posto delle scadenze. Soprattutto, non avreste preteso tutti i comfort nel luogo, vale a dire albergo, pranzo, cena, biglietti da viaggio, caffé, ombrelloni e aria pagati da eredi e amministrazioni. Piuttosto, se non partecipando con una quota, avreste badato esclusivamente voi stessi alle spese organizzative dell’evento: dietro l’amore per Calogero e la sua poesia, vi siete fatti la vacanza e trattando chiunque con arroganza e sufficienza, in quanto voi siete grandi artisti scesi al Sud del mondo dall’Olimpo in braccio a Pegaso o ai fulmini dello stesso Zeus, avete – o hai, caro Cannatà – ostentato aria di vittimismo e lamentele, quasi a significare che quel che stavate facendo (o avete fatto) era un favore per gli eredi e i conterranei di Calogero? Ma vogliamo escludere tutto questo? Vogliamo concentrarci sullo spettacolo? E lo chiamate recital? Gli alunni di una scuola elementare calabrese, presa a caso, sarebbero stati più bravi e più rispettosi di Calogero e della sua poesia rispetto alla vostra esibizione.
La lettura dei versi calogeriani svolta da Carlo Emilio Lerici e Bianco è stata orrenda. Come si fa a sussurrare sdolcinatamente – accompagnandosi con musiche e immagini, il più delle volte non coerenti al testo – dei versi partoriti con sofferenza estrema da un uomo solitario? Da un cuore innamorato spezzato una volta sola ma con effetti illimitati nel tempo, quasi fosse tritato e ritritato all’infinito, ogni giorno, in ogni istante, da un macina di dimensioni titaniche? Da un uomo abbandonato da tutti, dalla società, dagli editori, dai fruitori fuorché dalla natura, dal pensiero, da emozioni lancinanti nel bene e nel male? Da un’anima sofferente a tal punto, nel corpo e nello spirito, da tentare due volte il suicidio? Da un errabondo tra la staticità del tempo cronologico e il fluire vorticoso della parola poetica? Da un disperato alla ricerca della suprema speranza – la verità – attraverso la stessa creazione poetica? Da un cercatore della vera vita, quando questa vita l’ha rinnegato in modo onnilaterale, tanto da spingerlo a proiettare quella ricerca anche oltre la morte, la cui testimonianza è “Vi prego di non seppellirmi vivo”?
Le musiche e le immagini preparate per queste letture erano davvero sconsiderate. Rappresentano la prova di una deficienza sostanziale, dietro quella parata da iper-intellettuali, in termini di gusto, sentimento, coerenza ai testi, rispetto per l’autore. Come si fa a costringere il pubblico ad ascoltare dei suoni e a guardare delle immagini bell’e pronte, anziché lasciare che sia la potenza della poesia di Calogero a evocare da sola i luoghi, i ritagli, le finestre, le prospettive, le vibrazioni stesse che hanno generato ogni verso?
La super-critica calogeriana, Carla Saracino, invitata in quest’occasione, ha fatto pubblicità esclusivamente alla sua persona e ad alcune associazioni e riviste per le quali ha collaborato, scrivendo su Calogero, e ha dato esclusivamente sfoggio della sua parvente preparazione sullo studio tecnico delle opere di Calogero sostenendo, all’inizio, di vivere un matrimonio ideale e spirituale con la poesia di Calogero: perché non ha espresso quali emozioni ha provato e prova ogni volta che legge un verso di Calogero? Forse perché non ne ha provate e ha soltanto svolgere i compiti per casa, come fanno tanti altri intellettuali?
Per non palare dell’amico Michelangelo Zizzi che, anticipando l’importanza onnidisciplinare e onnitematica della poetica calogeriana e ricalcando il “ribrezzo” che prova un intellettuale del suo calibro nel partecipare a eventi di questo genere nelle province d’Italia – dunque, un Apollo del suo retaggio non va a sciacquarsi i piedi in Calabria tanto meno a Bagnara – ha iniziato a dare sfoggio del proprio dono delle lingue greca e latina, sostenendo che in Calogero il logòs si ricongiunge con il monòs per diventare il generatore di verità personali? Mi scusi, signor Zizzi, ma quando leggeva l’opera di Calogero era già posseduto dal demone delle lingue? È evidente che non ha capito nulla! É evidente che uno scrittore come lei non poteva capire quanto sinteticamente ha detto l’erede Lucia Calogero, vale a dire che Calogero scrive nel tempo della piena crisi dei valori e che la sua poesia è una continua ricerca della verità. Non poteva capire quanto ha sottolineato Ottavio Rossani, e cioè che la poetica calogeriana racchiude una pluralità semantica, linguistica, espressiva che sfiora il mistico, il filosofico; che il senso della sua poesia, da inquadrare nella sua vita straziante, solitaria e infelice, è un’eterna e disperata ricerca dello scopo dell’esistenza. Altro che logòs che diventa monòs: nella poesia di Calogero, il logòs dei filosofi, patria della verità assoluta ed eterna sulla quale si regola e si sostiene l’intera esistenza, è proprio quello che non c’è e che qualifica principalmente la produzione poetica calogeriana, distinguendolo da tanti altri poeti del passato e rendendolo un poeta attuale, un uomo che fa pensare non filosofeggiare.
La vita, la biografia del poeta calabrese è stata la grande assenza in uno spettacolo volto a ricordarne il nome, la storia, la poetica. Come si fa a “sentire” anche un solo soffio della potenza lancinante, e alcune volte speranzosa, del verso calogeriano, se lo si scioglie dall’elemento biografico? Chi era Lorenzo Calogero? A questa domanda, mai posta, non può rispondere da sola la poesia: c’è bisogno di collocare, sulla base di quel che si conosce con accuratezza della biografia del poeta, la poesia dentro la vita di Calogero. Se non si fa questo, specialmente quando, come in tale occasione, s’intende proporre la riscoperta di Calogero sia sul piano poetico sia umano – in quanto è uno dei rari esempi nei quali vita e poesia (cioè pensiero ed evocazione) si toccano – e tale riscoperta riguarda i conterranei, gli europei, i terrestri, allora tutto il resto perde di significato per acquisirne un altro. Quale? Tutto quanto il recital è sembrato, a mio parere, una semplice ri-commercializzazione delle opere, per consentire ad altri (cioè voi stessi), anziché di studiare dettagliatamente e di amare l’intera poetica calogeriana alla luce della vita del poeta, di continuare a fare quattrini, di farsi le vacanze pagate e di atteggiarsi ad unici possessori della verità.
Per questi motivi, cari promotori ed esecutori del recital, nel rinnovare i miei ringraziamenti per avermi fatto conoscere Calogero, credo che gli unici ad aver avuto a cuore Lorenzo Calogero il 13 agosto sono stati gli eredi, il pubblico, Rossani, la Calabria, Bagnara, il cielo stellato che faceva da sfondo al nome del poeta calabrese che si faceva sentire nell’atmosfera circostante. Nell’immaginare prima un evento in onore di Lorenzo Calogero, uomo e poeta, e nel decidere di svolgerlo poi così come è avvenuto, credo sarebbe stato preferibile se aveste fatto banjee jumping, senza elastico, dal nostro bellissimo Belvedere.

giovedì 12 agosto 2010

Notre-Dame de Paris: una recensione originale

di Natale Zappalà


Notre-Dame de Paris – pubblicato per la prima volta nel 1831 – costituisce una di quelle grandi opere della letteratura mondiale sostanzialmente stuprate dalle numerose trasposizioni teatrali e cinematografiche, tutte liberamente ispirate (ma l'espressione liberamente ispirato deve per forza incoraggiare l'allestimento di spettacoli scadenti – questa è una mia personalissima opinione – che così poco hanno da spartire con l'originalità del romanzo?) alla monumentale opera di Hugo.
Queste, cari lettori, sono le conseguenze di quella che sta diventando ormai una costante della rappresentazione artistica del XXI secolo: il film o il musical fungono ormai da Bignami della cultura. In altri termini, corriamo tutti a vedere al cinema o a teatro queste selve di sgavettati che pretendono di restituire al pubblico quei brividi di piacevolezza che solo un'attenta lettura può regalare, imbattendoci poi in qualche squallido movimento di bacino, disegnato su canzonette senza senso; oppure, assistiamo, dalla platea, a dei mostruosi cambiamenti di trama – specie nei tanti adattamenti cinematografici di romanzi – che violano la fisionomia originaria dell'opera in nome della ricerca degli incassi al botteghino (pensate al Bram Stoker's Dracula di Coppola, laddove la protagonista, Mina Murray, si innamora del vampiro, snaturando il bellissimo romanzo che pure il regista di origini italiane pretendeva di seguire integralmente). Così, tutti vanno ad ammirare balletti ed attori in calzamaglia, ma nessuno legge più le opere in edizione integrale, bell'esempio di nozionismo ed ignoranza, quei mali che, dopo aver contagiato il sistema scolastico, si propagano persino all'intrattenimento di natura culturale. Non ci lamentiamo poi se gli studenti – durante l'interrogazione di greco – dicono che Achille muore dentro le mura di Troia fra le braccia di Briseide, con tanti saluti ad Omero da Brad Pitt e Wolfgang Petersen; tanto ormai, nell'immaginario comune, vedere queste pellicole equivale ad istruirsi.
Dunque, solo una minoranza di lettori appassionati del romanzo storico ottocentesco hanno potuto apprezzare la filologica ricostruzione della Parigi tardo-medievale, il brulicante melting pot della Corte dei Miracoli e, soprattutto, lo struggente finale della storia (Quasimodo, dopo l'impiccagione di Esmeralda, deciderà di morire di fame, abbracciato al cadavere della sua amata – quando tentarono di staccarlo dallo scheletro che teneva abbracciato, si disfece in polvere... ), spesso snobbato dalla cinematografia.
Notre Dame de Paris è un coinvolgente catarsi nell’atmosfera e nel tessuto sociale del XV secolo; il lettore è in grado di partecipare empaticamente all’approfondita indagine psicologica dei personaggi principali della storia. Si scoprirà così la falsità delle facili identificazioni - convenzionalmente attribuite ai ruoli giocati da Quasimodo, Esmeralda, Frollo e Phoebus - smascherando la presunta dicotomia “buoni-cattivi" (come fa Esmeralda, un personaggio di cui Hugo non smette di sottolinearne la frivolezza e la poca intelligenza ad essere considerata un'eroina?) falsamente divulgata da adattamenti teatrali e trasposizioni cinematografiche, e rivelando - in conclusione - le molteplici sfaccettature dell’animo umano, immerse nella tortuosa ragnatela di sogni, paure, sessualità occultate, che Hugo ritrae con la stoffa di un moderno psicologo. Inoltre, sullo sfondo della Cattedrale si articola una eterogenea carrellata di bizzarri personaggi secondari (Tristan l’Hermite, Clopin, Gudule ecc.), con l’effetto di suscitare nel lettore critico ed attento, delle maggiori simpatie o curiosità rispetto agli stessi personaggi principali.
In definitiva, Notre Dame de Paris costituisce un tassello imprescindibile per i bibliofili più audaci e, parallelamente, uno scorrevole passatempo per gli onnivori del libro, consentendo alla totalità dei lettori di smarrirsi piacevolmente nel fascino labirintico della Cattedrale; e tutto ciò, a prescindere dai multimilionari incassi dello spettacolo di Cocciante.

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Una filastrocca per combattere il mondo del gossip

di Natale Zappalà

Considerate la televisione spazzatura al 99%? Il Grande Fratello fa più ascolti della partita della Nazionale Italiana di calcio? Non riuscite a spiegarvi perché i politici si infangano con donne di malaffare che poi ottengono un enorme spazio mediatico ed una luminosa carriera nel mondo dello spettacolo senza averne i meriti?
A prescindere dal fatto che – se non si ha nulla da nascondere, nella vita privata come in quella pubblica, difficilmente si finisce in pasto ai cacciatori di scandali - bisogna rendersi conto che il gossip, oggigiorno, riesce a smuovere le coscienze dei cittadini più della cronaca, più delle migliaia di morti vittime del terremoto ad Haiti.
Finché ci saranno interesse e ritorno economico nel seguire il fascino nauseabondo dell'immondizia diffusa dai mass-media, le vostre eventuali rimostranze rimarranno vane. Continueranno a distogliere l'attenzione del pubblico dai problemi e dalle tematiche più urgenti concentrandosi sui Corona, sulle D'Addario, sulle sgavettate alla ricerca spasmodica di notorietà, sulle finte coppiette del red carpet.
Perché, in fondo, l'intero “sistema del gossip” si basa su una nuova legge di vita, comprovata dalla assoluta mancanza di spirito critico che caratterizza la maggioranza della società odierna: LO SPORCO PIACE!
Dimostriamo e comproviamo questo principio con la forza di un esempio: l'individuo medio del XXI secolo – spesso caratterizzato da una cultura media (essenzialmente nozionistica) – addestrato dalle massicce campagne pubblicitarie e disorientato dal crollo vertiginoso dei valori un tempo fondanti del vivere (famiglia, amicizia, amore, religione o politica), se vede due donne che si accapigliano, rimane divertito a gustarsi la scena.
Su tale, apparentemente stupido, fondamento si costruisce l'inattaccabilità e la resa economica del sistema del gossip; una macchina che macina milioni di euro, fondata sull'ipocrisia o sulle voglie represse degli esseri umani.
Il rimedio? Fermo restando che la nostra generazione, in parte, ha già clamorosamente fallito, propongo ai lettori una filastrocca significativa, seppur banale quanto le peculiarità del sistema summenzionato; un sistema che va dunque combattuto imitando il suo punto di forza – la disarmante semplicità - al fine di risvegliare lo spirito critico fra le generazioni future.
Se mancherà il pubblico di supporto, l'economia del mondo gossipparo crollerà come un castello di carte; l'importante è, ancora una volta, CONOSCERE, DISTINGUERE ed EDUCARE.

Alla gente piace la feccia (*).
C'è feccia ovunque nel mondo di oggi;
ma la feccia, nel mondo, c'è sempre stata.
La verità è che alla gente, oggi, la feccia piace più di ieri.
L'unico modo per evitare la feccia,
probabilmente,
è educare i bimbi
affinché possano riconoscere la feccia dalla puzza.

(*)Onde evitare stupidi fraintendimenti o strumentalizzazioni varie, precisiamo che per feccia si intende il prodotto di scarto di un processo (vi invito a verificare il tutto, consultando un buon vocabolario della lingua italiana)

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In Pupa Vinces

di Natale Zappalà

Non c'è niente di più sterile al mondo del moralismo: ecco perché, in buona sostanza, se il mercato corrente richiede e privilegia individui del calibro di pupe, tronisti e gieffini – i quali riescono a guadagnare (oltre agli alti compensi ad essi già versati dalle case di produzione televisive), migliaia di euro per una comparsata in discoteca – le responsabilità ricadono immediatamente ed inevitabilmente sui gusti e sulle esigenze dei consumatori. Non si tratta dunque di “colpe”, ma di consuetudini e ragioni spiccatamente economiche. Stiamo sicuri che se grosse porzioni di pubblico gradissero Socrate e Platone, il sistema mediatico produrrebbe filosofi a iosa.
Valutiamo dunque il cursus honorum, in altri termini quali sono i requisiti adatti per rientrare nelle suddette e ben retribuite categorie: il titolo di studio è indifferente, mentre servono una certa dose di esibizionismo ed avvenenza fisica, senza contare quella naturale predisposizione al proferimento o al compimento di idiozie, non importa se veritiere o semplicemente simulate per suscitare clamore. Più la si spara grossa, più si rimane sulla cresta dell'onda: strani paradossi di una società apparentemente tendente verso l'estetismo che in realtà valorizza le brutture.
Conveniamo tutti sulla democraticità di tali requisiti; del resto, il messaggio vincente di questi prodotti è proprio quello di essere alla portata di tutti.
Esaminiamo ora il percorso inverso, relativo ai giovani inclini a praticare l'altra strada, quella della formazione culturale e professionale orientata alla spasmodica ricerca di un lavoro. La durata media dei tempi di studio e specializzazione è ormai ultra-decennale: cinque anni di scuola superiore, più cinque anni di università (mille euro annui, in media, di tasse universitarie da pagare, insieme ai non indifferenti costi di mantenimento, trasporto, acquisti di libri ed altri materiali per studiare), più eventuali specializzazioni semestrali, annuali o biennali mediante frequentazioni di masters (dai mille alle svariate migliaia di euro, ed ovviamente non stiamo parlando dei cartoni animati con protagonista He-Man o Skeletor), stages (anch'essi sovente a carico dei frequentanti) o tirocini (spesso volontari e non retribuiti). Dopo di che, se l'ente/azienda ha percepito abbastanza denaro da parte dei tirocinanti/specializzandi/stagisti, vengono offerti loro contratti di formazione del lavoro, assunzioni a tempo determinato e, solo in rari casi, ingaggi definitivi (specie quando il master/stage/tirocinio aveva lo scopo non dichiarato della messa in vendita dell'impiego).
La maggioranza dei giovani accetta passivamente questi itinera, anche perché l'abbondante percentuale di disoccupati sfornati dagli atenei italiani accentua la competizione e la disperazione dei ragazzi, costretti a piegarsi al seguente ricatto morale: “Se non lo vuoi fare tu, ci sono altri centomila concorrenti pronti a prendere il tuo posto”.
Le cause di questa congiuntura storica, sociale ed economica, sono tante e complesse ed occorrerebbero studi metodici ed approfonditi per conferire ad esse l'attenzione che meritano. Volendo sintetizzare e banalizzare, per amore di completezza, aspetti e problematiche di una difficoltà e di una tristezza disarmanti, diremo che tale quadro desolante è determinato da vari fattori interdipendenti: decenni di stillicidi e mercimoni degli impieghi pubblici; sopravvivenza di lobbies, associazioni a delinquere e logge massoniche che dettano legge in ogni settore pur infischiandosene delle leggi vere (quelle scritte, per intenderci, seppure resti valido quel celebre proverbio che paragona l'applicazione della legge agli stiramenti della pelle nella zona scrotale); un contesto contemporaneo dominato da costumi, mode e mentalità deleterie, nonché dal parossismo prodottosi durante gli anni del boom economico (in sostanza, servendoci di una simpatica metafora biblica, negli anni di “vacche grasse”, anziché amministrare saggiamente le risorse in surplus, si è fatta strage di mandrie ed il sistema è collassato); dulcis in fundo, la colpevole connivenza di tutti noi all'ecatombe della meritocrazia e della competenza (ecco perchè ha poco senso lamentarsi se poi si suole ricorrere al “compare” di turno persino per evitare la fila alla toilette, tanto vale – provocazione – legittimare la raccomandazione in fase di composizione del curriculum vitae).
In conclusione, visto e considerato che la sopravvivenza dell'uomo non sembra basarsi – con buona pace delle svariate credenze religiose – su presupposti etici o morali, bensì sul sempiterno principio del più forte o del più conveniente, benvengano pupe, tronisti e sgavettati vari, benvenga la tv-spazzatura, benvengano le strade agevoli verso il successo, se la coerenza e la sussistenza economica impongono la scelta dolorosa fra il guadagno facile e lo sfruttamento o l'incapacità di programmare un futuro decente, fra la moquette e il lastrico.
Il mondo è cambiato e, quando finalmente ce ne renderemo conto, non saremo più in grado di analizzarne compiutamente le variazioni. Aspettiamo quindi che si esauriscano le false illusioni, le strumentalizzazioni e le chiacchiere, comprese le modeste parole che stiamo sprecando in questo articolo; anche perché, la speranza di alterare queste realtà non riguardano più noi, ma chi verrà dopo di noi, ammesso che saremo in grado di trasmettere alle nuove generazioni modelli ed insegnamenti in grado di non comprometterci ai loro occhi. Chi vivrà vedrà.

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mercoledì 11 agosto 2010

La logica appiattita delle ricorrenze

di Natale Zappalà


Diciottesimi, matrimoni, lauree e festeggiamenti vari; chiunque di voi sia mai stato invitato ad eventi del genere negli ultimi tempi, ha dovuto giocoforza subire il famigerato “stereotipo del festeggiamento”. In altre parole, stiamo parlando della lunga serie di tappe forzate in cui si articola solitamente la celebrazione di un lieto evento; una serie piuttosto dinamica ed aperta a nuove proposte ed inclusioni, dal momento che qualsiasi innovazione escogitata durante l’allestimento di una festa viene immediatamente emulata nel corso delle prossime e simili ricorrenze.
L’esempio classico è costituito dai spesso noiosi ed ipocriti RVM (i filmati montati con foto, audio e video che pretendono di “raccontare” la vita vissuta del festeggiato) che gli invitati devono sorbirsi prima del taglio della torta di una festa per il diciottesimo compleanno. Una trovata inizialmente simpatica ed originale che tuttavia si è presto tramutata in una legge improrogabile, dal momento che ormai non ci sono diciottesimi riusciti senza RVM, semplicemente perché “lo fanno tutti”; d’altronde senza RVM, ci si imbatte nelle critiche feroci da parte degli habitué di cerimonie ed eventi mondani. La stessa manfrina si ripete solitamente anche in occasione delle feste di laurea.
Passiamo agli sposalizi, fiore all’occhiello dell’appiattimento sociale e dello scimmiottamento compulsivo delle mode nostrane o d’oltralpe: le feste matrimoniali, con buona pace della recessione economica – un matrimonio con meno di duecento invitati, specie al Sud, è considerato un pessimo matrimonio, decine di migliaia di euro scialacquate per qualche ora effettiva fra celebrazione e festeggiamento, con buona pace della crisi – durano ormai almeno tre giorni, essendo ormai corredate di iniziative, rituali o stilemi che spaziano dal folkloristico al trash, sino all’osé.
Si comincia col tappezzare la città o il paese di origine degli sposi con manifesti o locandine, decorati con cuoricini, foto ed amorini vari, possibilmente qualche giorno prima del lieto evento; la sera prima della cerimonia si ricorre alla romantica serenata sotto il balcone di casa della morosa; le parenti della sposa raccolgono le decine e decine di corredi (lenzuola, trapunte, tovaglie ed affini) che hanno pazientemente intessuto in vista delle nozze della loro congiunta (ma in casa ci vogliono per forza ventimila corredi? Mai sentito parlare dei coperti o dei fazzolettini di carta?); inoltre, sperando nella buona stella dei convenuti al banchetto, si potrà visionare qualche altro RVM (ancora lui!) prima della torta-gigante assortita.
Ma il vero e proprio capolavoro è rappresentato da un’iniziativa immancabile, esportata direttamente dalle pellicole e dalle serie televisive americane, estranea persino al ricco curriculum delle tradizioni meridionali: l’addio al celibato/nubilato. Si tratta di serate per soli uomini o solo donne, precedenti la cerimonia nuziale, in cui il presunto “addio alla libertà” viene celebrato con l’ausilio di spogliarellisti/e, ballerini/e o sgavettati/e vari/e, mentre ai convenuti vengono distribuiti graziosi souvenirs riproducenti gli organi riproduttivi ed ogni sorta di riferimento allusivo alla promiscuità sessuale. Nei casi in cui la famiglia o gli amici degli sposi dispongano di una certa prosperità pecuniaria, i soli-uomini o le sole-donne vengono senz’altro inviati, per almeno un week-end, presso mete esotiche ove “sfogare” una volta per tutte i propri appetiti sessuali, prima della “condanna eterna” alla monogamia (questo è il sunto della formula matrimoniale-religiosa cattolica, anche se, a giudicare dalle statistiche sulle “coppie che scoppiano” per via di ripetuti tradimenti, molti credenti se ne infischiano altamente dei giuramenti che pronunciano davanti all’altare).
Retaggi delle arcaiche feste dell’abbondanza? Macché, semplicemente amore incondizionato per la libertà; così, almeno, dicono tutti. Peccato che la libertà , in tutto questo complesso di consuetudini omologate, è la sola cosa che, nella maggioranza dei casi, proprio non si riesce a scorgere.
E’ chiaro che ciascuno deve essere libero di festeggiare, comportarsi e spendere come e quanto vuole – nel rispetto della legge – specie quando si tratta di ricorrenze proprie. Ma è altrettanto vero che sarebbe un ragionevole omaggio all’intelligenza ed alla dignità dell’essere umano, quello di agire coerentemente sulla base delle proprie, reali, convinzioni o inclinazioni.
Perché, se addii al nubilato/celibato ed RVM vari costituiscono ormai i dati di fatto dell’apparenza e mai della sostanza, la colpa ricade sull’appiattimento e sull’incapacità di ragionare, di fronte a mode e consuetudini imposte dagli altri, dalla pubblicità o dai settimanali scandalistici, con la propria testa. Si sa, l’uso meccanico finisce prima o poi per logorare il significato intrinseco delle cose; così, quelle poche manifestazioni veritiere di gioia per i propri cari si annullano spesso in cumuli di vuota ritualistica. Ma la purezza dei sentimenti, è chiaro, è ormai svilita dalle logiche della massa e, soprattutto, del mercimonio a cui è soggetta la massa.
“Lo fanno tutti”, si dice, ergo “sarei di meno se non lo facessi pure io”. Se ciascuno di voi ritiene utile e necessario, prima di nozze, lauree o diciottesimi, apporre la famigerata banconota all’elastico dello slip danzante dello spogliarellista, allora sia! Il libero arbitrio serve proprio a questo. Ma adattare le proprie ricorrenze all’abitudine e all’altrui emulazione è il fattore che più svuota di importanza le tappe fondamentali della nostra vita. “Lo fanno tutti”, d’accordo, ma siete proprio sicuri che tutti lo facciano coscientemente?


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