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mercoledì 11 agosto 2010

Giacomo Leopardi e Aspasia

di Natale Zappalà


La manualistica scolastica, specie nel contesto della letteratura italiana, è colma di autori ed opere decisivamente sviliti dall'obbligo scolastico. E' il caso di Giacomo Leopardi, laddove gli approcci ripetitivi di docenti non sempre al passo con la ricerca hanno favorito l'approssimativa categorizzazione della fisionomia del poeta di Recanati nel suo momento più noto, la fase del pessimismo cosmico, una visione negativa e senza speranza dell'esistenza umana. In sostanza, lo studente si ferma spesso allo studio di un momento, seppur importante, del pensiero di Leopardi, trascurando i pur evidenti cambiamenti di mentalità e prospettive che influenzarono l'ultimo decennio della sua vicenda biografica e professionale.
Nel corso del 1830 Giacomo conosce, a Firenze, la venticinquenne Fanny Targioni Tozzetti, donna bellissima e colta, ma con un'inquietante fama di raffinata seduttrice alle spalle; il poeta se ne innamora perdutamente, non ricambiato (pare che Fanny “mirasse” all'inseparabile amico di Leopardi, Antonio Ranieri), e a lei dedica cinque canti, il cosiddetto “ciclo di Aspasia” (Il pensiero dominante, Consalvo, Amore e Morte, A se stesso e Aspasia).





Il “ciclo di Aspasia” coincide con l'evoluzione di una passione reale, terrena e talvolta “carnale”, nei confronti di una donna vera, non più allegoria di giovinezza o speranze sul modello dei “grandi idilli”, caratteristici della fase del pessimismo cosmico. Una passione finita male – il Leopardi non ebbe “rapporti” di nessun genere con la Targioni Tozzetti – ma affrontata vigorosamente, razionalizzata e dominata con maestria. Questo traspare dalla lettura del canto che chiude il ciclo, Aspasia, il cui titolo richiama l'etera (nel mondo greco, le etere erano delle sorte di prostitute, coltissime ed eleganti) amata dallo statista ateniese Pericle nel V sec. a.C.





L'Aspasia è un sublime tentativo di esorcizzazione del sentimento amoroso, attraverso la scissione fra la persona idealizzata e la sua effettiva consistenza terrena.











Pur quell'ardor che da te nacque è spento:

Perch'io te non amai, ma quella Diva
Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.











Davvero niente male per un disilluso “passero solitario”, colpevole di vedere sempre nero, che tanto ci ha annoiato quando, seduti di malavoglia sui banchi di scuola, assistevamo alle anacronistiche spiegazioni del professore di letteratura; così Leopardi riesce a dominare l'impeto di un amore non corrisposto, non tralasciando di lanciare, con manifesta superiorità, qualche piccata frecciatina, volta ad esprimere la distanza incolmabile, presente in Fanny, fra bellezza ed intelligenza:











A quella eccelsa immago sorge di rado il femminil ingegno.











In fondo, Giacomo era di parte, in quanto recitava il ruolo dello spasimante respinto. Nei decenni successivi, quando il nome di Leopardi cominciò a risplendere nel firmamento dei più grandi autori italiani di tutti i tempi, piovvero critiche e rimproveri per la Targioni Tozzetti, come se la donna avesse dovuto obbligatoriamente concedere le proprie grazie al non certo piacente poeta (gracile, basso, con una doppia gobba, anteriore e posteriore).





Un “sacrificio”, così invocato dal pubblico, del quale chiese conto persino la giovane Grazia Deledda, quando incontrò l'ormai anziana Fanny, alla fine dell'Ottocento; la Deledda le chiese “come avesse fatto a resistere ad un uomo come Leopardi”, sentendosi rispondere, laconicamente, “mia cara, puzzava”.


Pubblicato su www.costaviolaonline.it

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