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martedì 17 agosto 2010

Il Quoziente Intellettivo: verità o bufala

di Natale Zappalà

Esiste un livello di intelligenza generale, una capacità cognitiva globale relativa al complesso delle attività umane che sia misurabile o paragonabile? Nossignore; o, quantomeno, non c'è niente di scientificamente dimostrato in merito.
Eppure, si sa, i luoghi comuni determinano spesso la diffusione di mode o scimmiottamenti stupidi e, oggigiorno, si vendono molto quei prodotti elettronici che pretendono di quantificare l'età celebrale. Su Internet spopolano quiz simili a quelli che, negli Usa (il famigerato SATScholastic Assessment Test, per esempio), vengono effettuati all'inizio del percorso di formazione scolastica, allo scopo di selezionare gli studenti e, possibilmente, pianificare la vita futura degli individui. Come se, un bimbo che ottiene risultati eccellenti nella prima età scolare semplicemente rispondendo a qualche domanda stupida, sia preferibilmente destinato a diventare senatore, presidente o magistrato, con la possibilità di frequentare gli istituti più prestigiosi; se non si tratta di razzismo consapevole, è pur sempre una forma becera di determinismo fantascientifico.
Il concetto di quoziente intellettivo (Q.I.) ebbe origine nel 1904, quando il Ministero della Pubblica Istruzione francese incaricò Alfred Binet di elaborare delle tecniche finalizzate ad individuare gli studenti con difficoltà di apprendimento. Binet elaborò una serie di test di complessità progressiva, indicativi di capacità basilari di ragionamento: se un bambino di sette anni riusciva a risolvere dei quiz che, mediamente, potevano essere superati da scolari della stessa età, all'esaminando in questione veniva assegnata un'età mentale di sette anni, indipendente da quella cronologica. Ricerche successive definirono il quoziente intellettivo sulla base della celebre formula Q.I.= (età mentale/età cronologica) * 100. Difatti, nello stesso 1904, lo psicologo inglese Charles Spearman notò che gli individui che ottenevano punteggi alti in determinate prove, talvolta tendevano a conseguire risultati pregevoli anche in prove diverse: un sillogismo evidente, che tuttavia indusse Spearman a teorizzare l'esistenza di un fantomatico fattore “g, l'intelligenza generale.
La morale della favola è che – l'idiozia dell'uomo è risaputamente contagiosa – ben presto, questi quiz vennero strumentalizzati per dimostrare delle presunte differenze intellettive fra gli individui e, soprattutto, fra gruppi di individui, sulla base dell'etnia, della provenienza geografica o dell'estrazione sociale.
Nel 1924, negli Usa, venne promulgata una legge sull'immigrazione basata sulle presunte differenze intellettive fra gli angloamericani e gli emigrati europei-orientali o mediterranei; in base ai risultati dei test, questi ultimi risultavano “meno intelligenti” rispetto agli anglosassoni, tanto da giustificare l'attuazione di una legislazione restrittiva in termini di concessione della cittadinanza. Test analoghi, nei decenni successivi, tenderanno a certificare la supposta inferiorità intellettiva degli afroamericani.
Se i suddetti gruppi di individui ottenevano sistematicamente risultati peggiori rispetto ad altre componenti nel corso dei quiz, ciò era facilmente spiegabile in base al concetto di “minaccia dello stereotipo”. In altri termini, quando un individuo, sottoposto a test del genere, risultava psicologicamente condizionato dalla pessima fama legata alla sua presunta inferiorità – si ricordi che, per esempio, negli Stati Uniti degli anni Venti, dare del “mediterraneo” ad una persona era sinonimo di vigliacco obifolco – otteneva immancabilmente punteggi bassi.
In realtà, l'esistenza dell'uomo ed il funzionamento del suo cervello sono soggette ad un'infinità di variabili, condizionamenti e fattori vari. Per tali ragioni, oggigiorno, studi psicologici o sociologici più seri (Gardner, per esempio) parlano di forme distinte di intelligenza piuttosto che di quoziente intellettivo o età celebrale. In ogni caso, si utilizzano sagge cautele e ponderate sperimentazioni in omaggio alla complessità che regola il mondo, evitando di divulgare dogmi apodittici parascientifici volti a legittimare delle false verità.
L'unica cosa certa, in fondo – con buona pace di tutti quei ciarlatani e pseudo-scienziati di bassa lega, il cui vivido esempio è Cesare Lombroso – è che conosciamo una minima parte del nostro cervello, sebbene ciò basti spesso a sostenere delle fallacee ineguaglianze fra gli esseri umani. Nonostante tutto, milioni di persone continuano a seguire, acriticamente quando non stupidamente, dei simili oltraggi – quelli sì – alla dignità della Natura e della VERA Scienza.

Pubblicato su www.costaviolaonline.it

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