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lunedì 16 agosto 2010

Calabria, terra abbandonata?

di Natale Zappalà

La maggioranza degli eventi culturali che vengono promossi nel Meridione presentano una peculiarità inquietante: il relatore di turno, direttamente giunto da Settentrione per legittimare la sua virtù di emigrato illustre, che spera di riscuotere la sua fetta di applausi descrivendo demagogicamente gli scenari di una terra – la nostra terra – abbandonata e schiva, arida e desolata, pericolosamente reclinata al servilismo. In altri termini, l'ovvia facilità di chi enumera i segni evidenti di una malattia senza illustrarne modalità di prevenzione, sintomi e cure.
Si tratta, a voler ben riflettere, di abusati luoghi comuni capaci di adattare alle esigenze contingenti di qualche ciarlatano in cerca di successo materiale, le pur secolari problematiche che affliggono i nostri luoghi. Come se fosse costruttivo venire a riempirsi la bocca di sterili piagnistei, assolutamente inadeguati se relegati a sé stessi, al fine di pianificare coscienziosamente ed oggettivamente la tanto sospirata rivoluzione culturale a beneficio dei nostri figli e del loro avvenire.
Quante volte ci è capitato di ascoltare discorsi pronunziati con finto accento settentrionale, volti a convincere la platea circa le sventure di una società esclusivamente ignorante, schiava e meretrice. Discorsi triti e ritriti, miscelati con qualche aforisma greco o latino, tanto per millantare al pubblico la propria delirante forbitezza oratoria, e poi confonderlo come il Don Abbondio che biascica latinorum per sviare il malcapitato Renzo dalle reali motivazioni animanti il rinvio del suo matrimonio con Lucia.
Ebbene, che questi dotti cattedratici comincino a riferire alla gente la sostanza dei fatti, iniziando a chiarire che, in questa terra abbandonata alle raccomandazioni ed ai clientelismi, sono essi i primi raccomandati e i primi favoriti, dal momento che la maggioranza di questi professoroni non si muove mai con finanze proprie, ma con continue telefonate contornate da osceni lecchinaggi ai politici ed ai potenti locali, mendicando serate ed ingaggi. Benvengano le denunce e le recriminazioni, ma per sostenere e ritenersi vindici di una determinata causa è necessario mantenere una condizione di assoluta purezza intellettuale che dia fondamento alle proprie aspirazioni di giustizialismo; il resto, è vana ipocrisia.
Le possibilità di forgiare mentalità capaci di inaugurare una nuova stagione di valorizzazione culturale del Sud non possono prescindere dall'umiltà e dalla coerenza. Piantiamola con i disfattismi di circostanza e parliamo piuttosto di educazione, rispetto e realismo; diamo ai giovani l'esempio e la speranza del domani, aiutandoli a combattere giorno per giorno anziché scappare e lasciare la tavola imbandita a qualche furbone.
I problemi ci sono, urgenti ed evidenti. Ma prevenirli o curarli significa essere disposti a prodigarsi quotidianamente, divulgando il riguardo delle leggi, della meritocrazia e dei comportamenti ossequiosi della dignità degli esseri umani. Tutto ciò evitando, se possibile, di affermare davanti a centinaia di persone che i meridionali sono culturalmente snobbati per via della mafia, della povertà, dell'ignoranza e di un presunto atteggiamento rinunciatario di fronte al progresso: questo, oltre ad essere epressione di certo determinismo geografico-culturale ormai passato di moda, equivale a coltivare l'arte del pregiudizio a casa dei pregiudicati.
Una delle nostre principali colpe ricade nell'incapacità di reagire al proferimento di cotante balordaggini, la nostra incuranza dinanzi a questi idioti che arrivano qui, vomitando qualche accusa senza neppure proccuparsi di dimostrarla scientificamente, e poi se ne vanno a mangiare nel migliore ristorante del borgo, ovviamente a spese delle amministrazioni comunali e quindi dei contribuenti. Un po' come quei cantautori impegnati e no-global che parlano a iosa della fame nel mondo per poi strafogarsi sette portate con dolce ogni giorno, grazie ai proventi delle vendite dei dischi.
Siamo stufi di tali corbellerie. Qui serve sudore per edificare, non lacrime di coccodrillo. Abbiamo bisogno di sostanza, intellettuali o presunti tali che siano disposti a scendere dai gradini dell'onnipotenza sui quali si collocano, in modo da fornire al popolo gli strumenti critici per sperare. Magari, iniziando ad ammettere che la cultura nobilita l'uomo ma non lo divinizza e, soprattutto, non elimina la sua naturale inclinazione ad errare, spesso grossolanamente.
Servono ciangende – figure folkloristiche del reggino che esprimevano, con pianti, urla e straziamento di carni e capelli, il cordoglio in occasione di una dipartita – quando c'è il morto, ma qui non c'è ancora niente che si sia estinto, se non l'incidenza e l'utilità sociale di certe parole e di certi atteggiamenti deliranti, capaci solo di incrementare lo sconforto del pubblico e il gettone di presenza di qualche ciarlatano.

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